Non sai da dove cominciare, quando devi recensire un disco come questo, perchè la sensazione è rara e bellissima. Capita infatti che navigando in Rete scopri una band che non conoscevi, che ne ascolti l’album senza pregiudizi, che ne scopri la provenienza e ne leggi la storia, e ti accorgi che limitarsi a scrivere di un disco sarebbe limitato nei confronti dell’intera esperienza. Nelle quattordici tracce che compongono questa terza uscita discografica della band di Milano c’è infatti molto di più: ci sono professionalità ed ambizione, innanzitutto, consapevolezza dei propri mezzi, cultura musicale ed un respiro finalmente internazionale che sembra - abbracciando senza ipocrisie tanti elementi della moderna retorica rock - spezzare le catene del provincialismo che affossa una fetta consistente della produzione discografica nostrana. Type 0 Negative, The Mission, Black Sabbath, HIM, Lacuna Coil, Paradise Lost, Depeche Mode, Killing Joke, Blue Oyster Cult, In Flames, Ac/Dc, Sisters of Mercy, Joy Division, Meshuggah, Katatonia, The Police... la teoria delle influenze scelte dalla band per introdurre le proprie coordinate stilistiche è sufficientemente lunga e multiforme da ben suggerire come il gruppo lombardo coltivi un mood piuttosto che emulare un singolo nome, proponendo - come scopriremo ascoltando - una sintesi intelligente (e solo a tratti prolissa, complice una tracklist piuttosto lunga) tra realtà musicali di successo e singolarmente individuabili. I Cayne, che arrivano dopo ed un’anima se la devono inventare, diventano con la loro storia una metafora del volo e dell’abbandono, l’araba fenice che rinasce dalle ceneri di una scena sterile e copiona, un chiaroscuro astratto in un inglese quasi perfetto, un tocco delicato ed ineffabile come nell’intro The Strain e, più di tutto, la sfida umana ed artistica nel ricompattarsi proprio quando le cose sembrano andare alla grande. E invece no.
La band alla quale devo questa marcatura stretta di emozioni nasce nel 1999 ad opera di Claudio Leo e Raffaele Zagaria, ex-chitarristi e fondatori dei Lacuna Coil, all'indomani dell'uscita dell'omonimo disco per la major Century Media. Il duo raccoglie subito le proprie forze e “il proprio indiscutibile talento” (cito testualmente dalla pagina Facebook) per dare vita ad una nuova realtà, chiamata Cayne, che già nel 2001 pubblicherà Old Faded Pictures per Scarlet Records. Dovranno passare dieci anni - tra pause di riflessione e lente riprese - perchè il gruppo, in una formazione rinnovata che vedeva il solo Claudio ancora coinvolto, tornasse a pubblicare materiale inedito, stampando quell’Addicted che promuoverà in Italia nel corso di un tour di supporto agli amici Lacuna Coil. E sarà proprio Claudio, a poche settimane dall'uscita del disco che ascoltiamo oggi, ad andarsene per sempre, vittima di un male incurabile, il 17 Gennaio 2013 a soli quarant’anni. Ancora prima di ascoltarlo, Cayne diventa quindi un elemento di continuità che trascende l'umana sventura, nel quale coesistono le speranze e le rinunce, la progettualità e la sfida, il desiderio di guardare avanti e le vite di persone che hanno saputo ritrovarsi, ed un giorno si ritroveranno. Il disco, a testimonianza di un progetto di respiro nel quale possano fondersi i contributi umani ed artistici più diversi, si avvale di una serie di collaborazioni importanti: Andrea Farro (Lacuna Coil) duetta con Giordano Adornato in Through The Ashes, Paul Quinn (Saxon) esegue l’assolo di Black Liberation, mentre quello di King Of Nothing è opera di Jeff Waters degli Annihilator. Il compito di cesellare un materiale già buono in partenza, lo si avvertirà sin dal primo ascolto, viene invece assolto a pieni voti da Marco Barusso, chitarrista ma qui anche produttore ed arrangiatore, già al lavoro con Lacuna Coil, HIM, 30 Seconds To Mars e Coldplay, solo per citarne alcuni: è anche grazie alla sua esperienza se tra i solchi di Cayne “il rock gotico e melodico si fonde con ritmiche moderne e violente, e (...) atmosfere decadenti ed elettroniche incontrano riff metal maestosi impreziositi dal magico suono del violino elettrico e da indimenticabili melodie”.
Bastano i primi accordi di Waiting per convincere dell‘efficace sintesi operata dal disco: dagli accordi di chitarra alla Murder dei Katatonia ai ritornelli che fondono le melodie autunnali dei Sentenced con un timbro brillante alla Starbreaker, i Cayne riescono ad accontentare tutti (“the music from Cayne is really for anyone, both from a musical angle and from the perspective of the lyrics, the emotions we put into our songs are for all those who want to take this journey with us”) senza tradire nessuno, perchè il loro approccio è coerente e ponderato, di una melodia semplice, vibrata e decadente - si vedano i frequenti intermezzi di violino - che tocca le corde giuste. Impossibile non lodare la performance di Giordano, forse il “meno italiano” tra i cantanti italiani alle prese con la lingua inglese che mi sia capitato di ascoltare: pronuncia a parte, Adornato riesce a distinguersi per un’inflessione melodica eppure partecipata, facendosi interprete di un dolore languido e superabile, di una redenzione possibile che viaggia sulle delicate note del violino di Lanfranchi. Le tracce si susseguono una dopo l'altra forti ciascuna di un'intuizione felice, di un riff azzeccato, di un effetto garbato che viene proposto per lo stretto tempo necessario ad apprezzarlo, e poi rimpiangerlo: sta in questo la natura sfuggente di Cayne, un lavoro di memorie istantanee che sembra volersi rivelare a metà, rappresentando un nuovo inizio piuttosto che il coronamento di un progetto lungo oltre dieci anni. Da un punto di vista stilistico, il sestetto propone un gotico moderno e melodico, malleabile e resiliente, capace di ritrovare la sua compattezza anche quando confrontato con pesanti break di doppia cassa, innesti folk, impeti industrial (Addicted), cover “college rock” (come Wikipedia definisce lo stile dei The Mission, dei quali i Cayne ripropongono Deliverance) e ballad dagli arrangiamenti raffinati (gli archi di Little Witch sono da pelle d’oca, a Deep Down And Under si perdonerà invece l’italico approccio piacione e artatamente soffuso). Nonostante la varietà di colorazioni, Cayne possiede una struttura di base, complice il lavoro svolto da Barusso in cabina di regia, sulla quale sembra possibile innestare di tutto, creando valore e suggestione misurata, invece che disordine: il disco è una spugna che assorbe e restituisce in uguale misura, un equilibrio maturo che - in puro stile 2.0 - ribadisce la sua natura contemporanea e la sua ambizione internazionale nella capacità di ascolto e confronto, di rielaborazione e ritmata sintesi, sempre in grado di ritrovare il bandolo della matassa (King Of Nothing) e la via di casa.
Cayne dimostra in ciascuna delle sue tracce una sensibilità nuova e rinfrescante, un punto di vista di volta in volta alternativo senza cadere nella tentazione dell’alternative, una capacità artigiana di arrotondare lo spigolo che purtroppo o per fortuna appartiene da sempre alle nostre genti. L’album sembra faticare, in quanto a contributo creativo, solamente nella sua ultima parte, suonando allungato: gli ultimi quattro/cinque brani sembrano riposarsi sugli allori di quanto costruito in precedenza, avanzando per gradevole inerzia piuttosto che introdurre elementi che ne rendano davvero interessante il singolo ascolto. A parziale discolpa, in questa fase finale l’album cita solamente se stesso (Like The Stars clona Little Witch) e non altro, rendendo la sensazione della ripetizione più sopportabile rispetto all’eventualità di un’emulazione sterile. Pesante dove serve per dargli una consistenza durevole, leggero ed arioso proprio quando sentiamo il bisogno di respirare sognando, ogni secondo del disco sembra graziato dalla fortuna di trovarsi al posto giusto al momento giusto, proponendo un allineamento perfetto di suoni e stati d’animo che molto deve alla cura riservata a mixing e mastering. Ed il fatto che la band abbia scelto di continuare il proprio percorso, come Claudio avrebbe voluto, non fa altro che aggiungere al progetto una tangibilità drammatica, una veridicità nera ed osmotica, una rielaborazione dell'assenza a cavallo tra espressione artistica ed il vissuto quotidiano di ciascuno di noi.
La voglio cruda e grezza questa recensione, ruvida e ignorante, fisica e sprezzante nei confronti dei cenni biografici, delle note stilistiche, delle considerazioni che insaporiscono le minestre letterarie pur senza aggiungere nulla di sostanziale. Di sostanza, invece, dai Motorhead ce ne aspettiamo tanta: in fondo alla band di Lemmy chiediamo soltanto di restituirci ogni volta lo spirito più autentico e carnale del rock'n'roll, quello che perpetua una leggenda vivente sempre uguale a se stessa, contenta di infischiarsene del tempo che passa e delle mode che cambiano. I Motorhead sono potenza e volume, sensibilità nascoste e malinconie latenti, velocità inarrestabili e luoghi comuni che sui fisici segnati di questi tre musicisti (Mikkey Dee è sempre in gran forma, però) acquistano una nuova ed incorruttibile credibilità. Io cominciai ad ascoltarli attorno al 1987, ai tempi di Rock'N'Roll: cresciuto con le cassette di Sigue Sigue Sputnik, Rondò Veneziano e Dire Straits, l'impatto con il CD prestatomi dall'amico e compagno di classe Antonio non fu dei più positivi, tanto che gli restituii il dischetto il giorno successivo. A distanza di pochi giorni, senza nemmeno ricordare il perchè, gli chiesi però di concedermi una seconda possibilità e già dal successivo ascolto fui rapito per sempre. Tralasciando i grandi classici, che appartengono ad un'età che non ho vissuto, i Motorhead hanno costituito per tanti anni uno dei miei gruppi preferiti, insieme agli Almighty di Ricky Warwick ed ai danesi D-A-D: 1916, Bastards, Sacrifice, Overnight Sensation, Snake Bite Love ed Inferno sono stati alle mie orecchie dischi degnissimi, compagni degli anni dell'Università e tanto più apprezzabili quanto più la sfida all'anagrafe si faceva impari ed appassionante. Ricordo che nella mia cameretta appesi al contrario un poster di Metal Hammer, capovolto di 180 gradi, sostenendo che il sangue che sarebbe andato alla testa dei quattro (nel poster c’era anche Wurzel) avrebbe potuto farli pentire di pubblicare dischi fatti con lo stampino, che all’epoca mi costavano risparmi piuttosto sudati. Gli ultimi acciacchi di Lemmy (classe 1945), tre anni in più di Ozzy ma portati meglio, hanno fatto temere i fan di tutto il mondo, con preoccupazione e susseguirsi-incontrollato-di-voci culminati con l’improvvisa interruzione del concerto al Wacken Open Air del 2 Agosto scorso: è dunque con grande piacere che accolgo la possibilità di ascoltare questo nuovo album, di concedermi una dose ulteriore di deliziosa sbobba, impeto allo stato puro e deforme senilità. Ogni uscita dei Motorhead potrebbe essere l'ultima, mi dico da metallaro ansioso, salvo poi rassicurarmi sul fatto che questi tre sono davvero immortali, e con buona probabilità ci seppelliranno tutti.
La tracklist di Aftershock comprende quattordici brani, per un totale di tre quarti d'ora abbondanti di musica, ed il compito di aprire per la ventunesima volta le danze - tanti sono gli album registrati in studio - spetta al mid-tempo di Heartbreaker, brano per fortuna in pieno stile Motorhead: il succo è tutto nella ripetitività della strofa, negli stacchi brevettati di Mikkey, nelle chitarre affamate che si concedono un po' alla volta, fino all'inevitabile assolo. Di questa prima traccia piace la cura (apprezzabili, quasi raffinati i cori in pudico sottofondo), la relativa melodia, la rotondità matura che scongiura quella semplicità punk che, pur appartenendo a pieno titolo al sound della band (Queen Of The Damned), si fa sempre più distante mano a mano che il peso degli anni e del mondo (ho sotto mano il CD di Weight Of The World dei Metal Church e volevo assolutamente usare l’espressione...) si accumulano sulle spalle dei tre. La successiva Coup De Grace si mantiene su coordinate che vorrei definire giuste per i Motorhead del 2013: il dinamico trio gestisce senza eccessivi affanni un monocorde pieno e potente al quale non manca una certa cesellatura, tra il dinamismo degli accordi, la vena rock'n'roll degli assoli ed una sostanziale sensazione di coerenza, placement, che fa di Aftershock un prodotto contemporaneo e correttamente contestualizzato. Il blues di Lost Woman Blues, proposto dopo appena due brani, conferma l'impressione di un gruppo attento al cambiamento, che senza snaturarsi coglie con intelligenza la possibilità di mutare registro e soffermarsi sull'atmosfera. Lemmy si conferma davvero perfetto per questo genere di canto dilatato e sofferto (a me era piaciuto anche ai tempi di Don't Let Daddy Kiss Me), non a caso riproposto qualche minuto più tardi con l’interessante e pulita Dust And Glass, ed una volta entrati nello spirito del disco non dispiace ritrovare l’icona inglese su corde così differenti, pure un filo seventies (Silence When You Speak To Me). Paralyzed sembra Burner solo più spompa, direbbe Renzi, mentre End Of Time torna a spingere sull'acceleratore forte di un riffing che farà divertire il pubblico dal vivo, ma che all’ascolto casalingo perde di freschezza nel giro di una manciata di battute; molto meglio Do You Believe, veleggiante su quel tipico Motorhead-tempo che ti sembra di vederlo, Mikkey, quasi fluttuare divertito sullo sgabello della batteria, biondo crine al vento sull’azzardo sincopato di Going To Mexico come se gli ultimi trent'anni non fossero mai passati. Chitarra e basso si ritrovano con il feeling di sempre, intrecciandosi e ricomponendo le dissonanze, quasi a voler dirci che i Motorhead ci sono, volenterosi come quegli attaccanti invecchiati che ora segnano meno ma sudano uguale, e con loro quella chimica che li ha saputi tenere vivi ed uniti. Una scaletta così lunga amplifica il rischio di episodi più anonimi, che nel caso di Aftershock hanno il nome di Death Machine, Crying Shame, Keep Your Powder Dry e Knife: la durata contenuta di tutti i pezzi scongiura comunque il rischio di noia ed irritazione, dal momento che canzoni belle e meno belle passano tutte con uguale & democratica disinvoltura. Non servono ripetuti ascolti per battezzare Aftershock come un album ampiamente sufficiente, abbondantemente passabile, che assolve alla sua missione esistenziale con decoro elementare, generosità, cuore. Il disco è curato, lo si coglie negli arrangiamenti, nelle influenze, nella voce di un Lemmy ancora in vena di esperimenti, nel suono croccante e nella prestazione fisica di un Mikkey Dee che pare rimbalzare sulle pelli leggiadro come Clooney in assenza di gravità. Tuttavia il fan dovrà accontentarsi di questo, che tutto sommato non è nemmeno poco, perchè l'album manca di cattiveria, sarcasmo, potenza bruta ed amabile scorrettezza politica, caratteristiche di quel suono senza compromessi (penso a sublimi vulgar display of power come I Am The Sword, ad esempio) che oggi si sceglie prudentemente di evitare, scongiurando il rischio di diventare una fotocopia di se stessi che da accettabile - qual è - si faccia patetica ed annaspante. Il 2013 ci restituisce un trio performante e consapevole, che gigioneggia con la classe di sempre pubblicando gli esiti di un check-up più utili a rassicurare la base dei fan sul suo stato di salute che non a stupirli con un guizzo improbabile, al quale Aftershock decide di rinunciare senza nemmeno troppo rimpianto.
Ancora ebbro per la recensione di Lucifer (Fox, 2013) torno volentieri in terra Svizzera, per la precisione a San Gallo, capitale dell'omonimo cantone, per parlarvi dei Black Diamonds, quattro ragazzi che - narrano le scarse cronache biografiche reperibili su Internet - sembrano aver "venduto la loro anima al diavolo" tanto grande è l'amore per il rock più selvaggio che li unisce. Condividendo una grande passione per tutto ciò che è hard & glam, come si evince dallo stile che gli svizzeri omaggiano con ogni mezzo, dall’abbigliamento di genere alla disorganizzazione del sito Internet, i Black Diamonds si formano nel Settembre 2004, ufficialmente a seguito di una sontuosa bevuta. Completata la prima line-up con l’ingresso di un bassista, la band si mette subito in evidenza per un’intensa attività live, che li vede protagonisti di spettacoli dirompenti: il contestuale impegno in studio porta alla pubblicazione, quattro anni più tardi, dell’album di debutto First Strike, contenente dieci brani originali ed una cover di Chuck Berry, quasi a testimoniare l’amore per un rock’n’roll delle origini, puro ed incontaminato nello spirito, eppure retro-attualizzato per suoni ed immagini con il corredo artistico lasciatoci in dote dagli anni ottanta. Seguiranno ulteriori cambi di formazione, più frequenti quando le band assaporano i primi successi e le ore di assoluta dedizione richieste si moltiplicano, fino a quando nel 2011 i Black Diamonds si assestano nuovamente per dare alle stampe il singolo Black Thunder. Influenzati da Guns N’Roses, The Darkness e Buckcherry, sembra che per i quattri svizzeri il 2013 possa finalmente rivelarsi l’anno della consacrazione, grazie alla pubblicazione di un secondo album, di un video ufficiale (lo trovate più sotto) e di un’attività concertistica che, a giudicare dagli appuntamenti fissati sulla pagina Facebook, sembra piuttosto intensa. Il disco, vale la pena dirlo subito contravvenendo ad ogni regola pseudo-giornalistica, è un piccolo gioiellino che merita tutta la fortuna possibile in un mercato affollato, che per insidie ed imprevedibilità pare essere secondo solo a quello immobiliare. Perfect Sin è ruspante ed immediatamente decifrabile, pacchiano e sfrontato come ogni singolo aspetto che riguarda i suoi solchi e la sua band, straordinario per efficacia e capacità di creare un crescendo che unisce nei cori di una We Want To Party qualsiasi (We are here, We Want... To Party!). Bastano pochi secondi per ritrovarsi, ne sia prova, a cantare il ritornello di Judgement Day: l'opener - escludendo l'intro The Court - esibisce un ottimo drive, nel quale il suono fantastico del ride di Manu si evolve in un quattro/quarti scandito dal crash col quale è impossibile non entrare in dinamica sintonia.
La pagina Facebook della band, dicevamo, a fronte di un sito ufficiale traboccante di link a social network e negozi online (Facebook, YouTube, Restorm, MySpace, Bandweb, MX3, iTunes, CeDe, Amazon, CD Baby, Spotify, Last.fm) ma piuttosto avaro di informazioni, rappresenta un diario prezioso che racconta il sogno di Mich e dei suoi compagni di viaggio, spesso ritratti abbracciati: dalla richiesta di sponsorizzazione rifiutata con garbo dalla Jack Daniels alla foto che li ritrae stesi ed incuranti sui binari del treno, avvolti dalla neve, il racconto dei Black Diamonds è un tentativo continuo, persino edificante nel principio che lo anima, una sfida condita dall’illusione dell’immortalità, nobilitata - almeno ai nostri occhi - dalla volontà di infondere lo spirito rock in ogni aspetto della quotidianità, fosse questa un’arteria autostradale da percorrere per raggiungere la prossima venue oppure l’officina di un meccanico dove ritirare il tour bus finalmente aggiustato. La voluta accessibilità della ricetta alla base del disco non deve far pensare ad un prodotto tecnicamente approssimativo: al contrario, le chitarre sono entrambe in grande spolvero, affiatate come nell'heavy di una volta, tecniche e melodiche negli assoli che graziano ogni brano con precisione tipicamente eighties (Evil Seeds). Il drumming offre una buona varietà di soluzioni (compreso l’immancabile ricorso alla cowbell) e si concede qualche stacco sincopato che previene ogni possibilità di effetto-routine, il basso di Bernie gode di una buona ribalta (Hell Boys), la voce di Mich è infine perfetta per il genere, melodica e tardo-adolescenziale, effettata nella giusta misura e graffiante quando serve per dare credibilità agli amori di strada cantanti nei testi, prevedibilmente scontati (She’s lying in my bed and she’s looking incredibly beautiful, tipo) e conditi ora da qualche corroborante Fuck You! (Read My Lips) ora dagli immancabili yeah. La scaletta di Perfect Sin è un assalto continuo di combustioni spontanee e frammenti divertenti, tutti capaci di evocare un convulso movimento punk, un'emozione minima, una trasgressione ingenua e ripetibile senza sensi di colpa: i Black Diamonds riescono con semplici successioni di accordi ad evocare stati d'animo differenti, complici buone ballad come I'll Be OK e Hold On, ed altre appena discrete come Take My Life oppure l’acustica A Thousand Roses, stimolando una malinconia giovane e nostalgica (Somebody Put Something In My Drink), ribelle e carica di speranza, che riporterà indietro nel tempo molti di noi e renderà a suo modo unico questo ascolto. L'album - che appaga anche per la quantità di musica proposta nell’arco delle sue quindici tracce - possiede un'energia sporca e disordinata perfettamente coerente con lo stile leather/maculato della band, il genere scelto ed il ricordo dei posti nei quali vorremmo tornare, sull'onda delle sue note: il pacchetto si presenta allora perfetto, non adulterato ed a misura della sua ambizione terrena, quella che solo una piccola band svizzera con poco più di seicento fan su Facebook saprebbe ancora cullare. Perfect Sin è un Peccato felice di portare nel suo cantone un risultato positivo e squisitamente mortale che segna senza dubbio un passo nella giusta direzione, alla soglia dei primi dieci anni di sacrifici, elettrizzanti attese, kilometri su gomma e meritate conferme.
Bambino prodigio nato a Ystad, paesino svedese con poco più di diciottomila anime, il piccolo Richard Andersson aveva da poco spento le sette candeline quando - imparando dal padre organista - cominciò a suonare musica classica. Il primo progetto musicale di Andersson ha il nome di Majestic ed è datato 1998: alla realizzazione dei primi album in studio avrebbero fatto seguito tour in Giappone, collaborazioni con band francesi (Adagio) ed altri progetti ancora, tra i quali Time Requiem e Space Odyssey. Quest’ultimo, in particolare, fu pensato insieme all’amico e virtuoso chitarrista Magnus Nilsson (da non confondersi con il connazionale Karlsson recentemente autore dell’ottimo Freefall): ai due, che si conoscevano dai tempi dell’infanzia (fu proprio Magnus ad introdurre Richard alle sonorità rock/metal), bastò un pranzo per decidere di suonare qualcosa insieme, complice la stima di Richard che non ha mai mancato di descrivere l’amico come uno dei migliori chitarristi con i quali abbia mai suonato, riconoscendogli un eccellente senso per la musica "spesso manifestato attraverso l’utilizzo del vibrato". Il risultato della collaborazione doveva rappresentare un mix di prog-metal ed influenze classiche tra le quali Black Sabbath, Whitesnake, Rainbow e Malmsteen, e doveva essere in grado di fondere melodia e tecnica, precise geometrie scandinave e spunti di classe sgorgati dall'estro di musicisti dal talento indiscutibile. Tears Of The Sun rappresenta la terza tappa del progetto Space Odyssey (dopo il debutto con Embrace The Galaxy e The Astral Episode) e saluta il subentro alla voce di David Fremberg (Andromeda) al posto di Nils Patrik Johansson (Astral Doors, Wuthering Heights). Colpisce la facilità apparente con la quale i musicisti scandinavi riescono ad assemblare progetti di questo genere, rimescolando carte e line-up, attingendo da una lista apparentemente infinita di potenziali ed entusiasti collaboratori: side-project solamente nel metodo di lavoro asincrono, senza nulla detrarre in termini di qualità, esperienze come quelle degli Space Odyssey utilizzano al massimo la possibilità di comporre e diffondere materiale online, condividere le idee, bilanciare gli apporti e moltiplicare i contatti per trovare, ad ogni occasione, i musicisti più adatti - o semplicemente quelli al momento disponibili - a salire sul carro. Se l'esistenza di una scena musicale in grado di favorire la collaborazione degli artisti e la loro voglia di imbarcarsi in nuove avventure costituiscono presupposti imprescindibili, la bravura degli stessi si evince anche dalla capacità, per nulla scontata, di consegnare una musica che simuli la chimica di un'intera band alle prese con la registrazione in studio. Spesso i dischi di questo tipo suonano impeccabili ma eccessivamente levigati, artificiali nelle distanze tra le loro stesse strutture, composti come splendide immagini che la perfezione aliena, vittime di Photoshop: per questo l'ascolto di Tears Of The Sun comincia con la voglia di identificarne il carattere e sondarne la verosimiglianza. Sono le tastiere seventies di Andersson a fare da onnipresente tappeto musicale al riffing di Bohemian Werefolf: l'ottimo Fremberg, graffiante e maturo, fornisce una vibrante prestazione alla Tony Martin (Headless Cross, 1989), capace di coinvolgenti aperture melodiche che contribuiscono con ulteriore autorevolezza alla riuscita della sua prestazione. Pregevoli assoli di chitarra (Dark Wings Of Universe, Bloodspill) ed un accompagnamento di batteria sempre presente e personale confermano un quadro di grande solidità, nel quale una singola idea di base viene arrangiata, sviluppata ed arricchita dal contributo di tutti: che si tratti di un coro (Killing The Myth), di una fucilata di doppia cassa o di un riffing più articolato, gli ingredienti di Tears Of The Sun sanno di già visto ma non di già sentito, tanta è la classe misurata con la quale sono amalgamati, variegati e riproposti. Il disco viaggia su tempi medi ed altri più rallentati, che metteranno subito a proprio agio - facendoli sentire a casa - gli amanti delle sonorità classiche (compresa una blueseggiante Miracles in Daylight) citate tra le maggiori influenze del duo alla base del progetto. Gli Space Odyssey dimostrano autorevolezza e coesione nel distendere i ritmi, soffermandosi su atmosfere rarefatte (già nella seconda traccia, Obsession), sulla cura del dettaglio, sulla precisione maestosa di una produzione in perfetto stile scandinavo che propone una potenza scorrevole e compassata, energica ma di una rotondità sempre accomodante. E' proprio la costante piacevolezza dell'album a distrarre l'ascoltatore dai suoi meriti compositivi: Tears Of The Sun ha infatti il difetto - tale solo in apparenza? - di suonare facile, mentre i suoi brani si susseguono in un fluire dolce, dall'acuto smorzato, dalla struttura ricorrente nonostante la diversa natura delle fonti alle quali Andersson attinge. Questa scelta viene dunque a contraddistinguere un ascolto gradevole al quale manca il senso della conquista, della scalata, della paziente schiusa delle sue intricate vicende. I brani, benchè tutti sontuosamente arrangiati, si prestano così ad una lettura univoca che ne riduce la capacità evocativa (ed a poco servono gli artificiali cori gregoriani di The Northern Silence, in una parte finale dell’album più scontata, che tende ad appesantirsi), facendo dell'ascolto un ottimo fine invece di un mezzo sfidante, capace come lo si vorrebbe di trasmettere anche altro. In questo risiede il limite della certosina levigatezza che contraddistingue un disco figlio di una progettazione attenta e conciliante, per il quale il termine progetto racconta la genesi a tavolino, lo spirito organizzativo internettiano, la collaborazione ordinata che unisce le professionalità piuttosto che comporre gli umani contrasti succhiandone l’energia immortale. Al meccanismo oliato del terzo disco degli Space Odyssey manca allora la scintilla, se non propriamente l’anima, forse anche l'ingenuità di un solo errore, per differenziarne in modo deciso l’esperienza e fissarne l'ascolto in un ricordo duraturo: Tears Of The Sun diventa un’opera da ascoltare piuttosto che da vivere, contemplandone il rigore formale senza lasciarsi veramente coinvolgere dai suoi ritornelli e nemmeno dagli episodi (come Awakening) che sembrerebbero possedere ambizioni comunicative più importanti. Nonostante il perdonabile limite, questo disco rimane un acquisto consigliato, sia per il prezzo accattivante al quale è ancora possibile trovarlo (€8,13 su eBay al momento in cui scrivo, spese di spedizione comprese) sia per l'apporto qualitativo che un Compact Disc del genere è in grado di donare alle discoteche di tutti gli amanti del metal melodico, politicamente corretto e derivativo ma con dignità.
Non è bastata la pubblicazione di un ottimo album come questo Majestic Machination a garantire la sopravvivenza dei Machina, metal act finlandese le cui tracce, a giudicare dalla mancanza di aggiornamenti del sito web ufficiale www.machinametal.com, sembrano essersi perse nell'agosto del 2010. Il vuoto pneumatico della pagina MySpace della band, e la sua totale estraneità alle lusinghe social di Facebook, non fanno altro che aumentare il senso di desolazione e lo sgomento per una storia promettente che, complice una totale assenza di promozione online, sembra essersi interrotta all’improvviso. Così dei Machina non ci rimane nemmeno una traccia virtuale, privati - a causa della mancanza di informazioni reperibili - del piacere della riscoperta e del potere di donare nuova vita, spendendo qualche parola sulle pagine di un blog, ad un progetto ricco di prospettiva che avrebbe meritato altre fortune. Precedentemente autori di un EP intitolato Dark Age Digital (2006), Tapio, Petteri, Sami, Pekka, Jukka e Marko - adoro i nomi finlandesi - promettono tredici tracce di musica “pura e onesta", combinando influssi moderni ed altri più tradizionali per dare vita a quel genere che oggi si definisce, semplicemente, metal fresco, potente e melodico. Semi-sconosciuti su Internet, dove trovo qualche recensione del disco ma nessun cenno biografico relativo alla formazione (Google Immagini restituisce una riga scarsa di materiale pertinente, e per la prima volta da quando ho accesso alla Grande Rete e scrivo di musica non riesco nemmeno a capire chi suona cosa... Ma almeno la band ci fa sapere che la copertina l’ha disegnata un tale J), i sei di Oulu si presentano nel migliore dei modi con una Sons Of War che è ritmo articolato, chitarra potente ed un sorprendente senso di autorevole maestosità che non ci si aspetterebbe da un gruppo al debutto. Tra pregevoli shuffle di batteria, delicati arpeggi, assoli melodici e torrenziali ripartenze, il brano di apertura è un capolavoro di semplicità solo apparente, un efficace compromesso tra semplicità e rifinitura, l'elaborazione di un'idea azzeccata alla quale però non difetta il contenuto. Solo la voce di Sami, che essendo ritratto in primo piano nella foto ufficiale immagino essere il cantante, potrebbe suscitare qualche perplessità: non è tanto la tecnica a far aggrottare le sopracciglia, quanto piuttosto un tono non sufficientemente grave nè virile per riuscire a convogliare tutta la potenza espressiva della quale la band sarebbe capace. Complice la scelta del registro rock/melodico tenuto dal suo frontman, comune a molto power di provenienza tedesca ed ancor più russa (ne sia prova la strofa sfacciatamente neomelodica di Lords Of Illusions), il metal svelto dei Machina gioca più sull'agilità che non sulla pura potenza, rinunciando alle complicazioni epiche dell’etichetta power in favore di un approccio più fresco e moderno, dalla personalità più superficiale ma stilisticamente più vario: dalle ritmiche thrash alle cavalcate di doppio pedale, dai suoni ambientali di Flames From Abyss alla potenza rustica di una ballad come Abscence Of Light, passando per l’atmosfera raccolta della strumentale Lacrimalis, è soprattutto la prima parte del disco a dipingere una varietà di situazioni che rende il viaggio tra i suoi solchi sempre interessante, stimolante, vivo.
Majestic Machination sa di invenzione e di discreta cura produttiva, trasuda dinamismo e suona onesto senza quell'opulenza che potrebbe distrarre, concentrato come quel giocatore di calcio “che vede la porta" ed i cui sforzi sono sempre volti alla creazione di un'opportunità. Che si tratti di un assolo tecnico o di un ritornello azzeccato, la maggior parte dei brani in scaletta riesce nell’intento di trovare un suo senso, un suo sfociare coerente, un calore melodico che contrasta piacevolmente con la finnica freddezza dei suoi suoni. I Machina del 2009 vivevano di intuizioni brillanti, sottoposte al giudizio del pubblico senza perifrasi nè eccessive sofisticazioni: al contrario, il songwriting semplice tende a valorizzare i riff ed i chorus, con una durata delle canzoni talmente asciutta da escludere anche il solo pensiero di un momento di autocompiacimento. La successione dei brani scorre con una naturalezza tale che pare di arrivare al giro di boa della tracklist in pochi istanti: registrata allo Studio 57 da Aki Karppinen e masterizzata ai Tico Tico Studios da Ahti Kortelainen, l’immediatezza riffata di Majestic Machination invita a più ascolti non tanto per rivelarne chissà quali profondità, quanto piuttosto per assaporarne gli sprazzi che scorrono sfuggenti, portatori di un fascino allo stesso tempo consapevole, mortale ed acerbo. L'album è un'offerta generosa e continua, una scintilla future-oriented che combatte la noia con fare gentile, un gioco a carte scoperte di leggibilità immediata che traduce perfettamente in musica quel fare onesto che per i finlandesi costituisce giusto motivo di orgoglio nelle poche parole di autopresentazione. Lungi dallo stupire con effetti speciali, Majestic Machination è un lavoro appassionato e ricco di germogli, benchè privo di radici biografiche che possano contribuire a contestualizzarlo, una vera lost gem che probabilmente affascina non solo per la bontà attuale del suo metal, ma anche per quel senso di solitudine comunicativa che circonda la sua breve vita e la sua improvvisa fine. Totalmente assente anche su Youtube, questa band pare non essersi semplicemente sciolta, ma piuttosto estinta.
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La sontuosa confezione della GB Station, come raffigurata su Internet.
Girovagando tra i miei siti preferiti di gadget elettronici rigorosamente cinesi & rigorosamente low-cost, mi sono imbattuto il 18 Agosto in un'offerta che, da irriducibile appassionato di retrogaming, mi è sembrata molto allettante: A Happy Deal propone infatti una Brighted Backlit Screen 3D GB Game Machine Compatible More Than 2000 Kinds of 8 Bit Games (meno prosaicamente marchiata GB Station) che ricorda in tutto e per tutto, colore compreso, il mio caro Game Boy Advance SP (la sigla sta per Special Project). Cercando di reperire qualche ulteriore informazione online - e divertito dalle immagini della confezione che propongono non solo un fuorviante logo 3D in bella mostra ma anche un improbabile mash-up tra Super Mario e Crash Bandicoot - scopro ben presto che la stessa console, evidentemente ancora disponibile in ingenti quantitativi da smaltire, viene offerta da Everbuying, Xbuynow ed Uolike, a prezzi simili quando non leggermente superiori. Versione migliorata del Game Boy Advance, l'originale Nintendo è datato 2003 e dispone tuttora di un catalogo software di tutto rispetto: IGN ha stilato una lista dei 25 migliori titoli per GBA che include, tra gli altri, Mario Kart Super Circuit, Metroid Fusion, Mario & Luigi Superstar Saga, Super Mario Advance 3 Yoshi's Island e Castlevania Aria Of Sorrow. Per quanto riguarda i miglioramenti apportati all'hardware rispetto alla prima versione, il restyling SP manteneva la CPU Arm7 ma presentava uno schermo leggermente più grande di quello del GBA, montato su uno sportellino richiudibile che rendeva ancora più comodo e meno ingombrante il trasporto. Nonostante lo sforzo compiuto da Nintendo per illuminare lo schermo, va però notato come la prima versione della piccola console presentasse un sistema di illuminazione frontale poco efficace (specialmente quando usato all'aperto), successivamente sostituito da un più efficiente sistema di retroilluminazione.
La confezione della GB Station come appare realmente...
...al termine di un lungo viaggio intercontinentale.
Dal momento che la console in mio possesso soffre di questo problema, rendendo alcune sessioni di gioco più ostiche del dovuto per la difficoltà nel capire - in presenza di certe condizioni di luce - cosa avviene sul suo piccolo schermo, capirete la mia sorpresa nello scoprire un apparente clone come la GB Station che, al prezzo di €10.18 (con le spese di spedizione a partire da un ragionevolissimo €3.34), offre due caratteristiche molto interessanti: uno schermo retroilluminato ed un inedito cavo per il collegamento della console alla TV. Qualora la cartuccia inclusa nella confezione con 99.999 (!) giochi non dovesse essere sufficiente, mi dico poi nell'utopico caso che la GB Station fosse compatibile con le cartucce per Game Boy Advance, avrei anche la possibilità di ampliare la mia retro-softeca avvalendomi di una flashcart come la rara EZ-Flash IV, sulla quale sarebbe possibile caricare un numero quasi illimitato di ROM (a seconda della capienza della SD Card utilizzata), a patto di disporre anche delle cartucce originali per non rischiare di commettere videoludiche illegalità.
La diversa luminosità dei due schermi: GB Station a sinistra e GBA SP a destra.
Proprio per quanto riguarda la questione della compatibilità con i giochi GBA, le informazioni trovate su Internet sono di carattere contrastante: mentre su alcuni cloni video-recensiti su Youtube girano giochi per Game Boy Advance, i sistemi più economici permettono solamente di avviare i giochi integrati e, nel migliore dei casi, di inserire una cartuccia aggiuntiva in formato proprietario che contiene ulteriori ROM per Nintendo Entertainment System. Un NES portatile a poco più di €10,00 non sarebbe comunque male, mi dico. Una volta effettuato l'ordine cerco qualche informazione relativa a prodotti simili su Youtube e mi lancio in un primo confronto tra le dimensioni dei due sistemi, che fornisce risultati abbastanza confortanti in quanto a "similitudini":
Dimensioni GBA SP
Lunghezza: 84,6 mm
Larghezza: 82 mm
Altezza: 24,3 mm
Peso: 143 grammi
Dimensioni Brighted Backlit Screen 3D GB Game Machine - GB Station
Lunghezza: 90,0 mm
Larghezza: 80,0 mm
Altezza: 30,0
Peso: 110 grammi Trascorso circa un mese e mezzo dal momento del pagamento con PayPal, arriva finalmente il momento di ritirare la console presso l'ufficio postale: la confezione è esteticamente identica a quella raffigurata sul sito del venditore, per quanto il trasporto in una busta imbottita ne abbia compromesso in qualche punto le forme. Sul cartone sono inoltre stampati degli elementi circolari lucidi che sembrano ruotare quando esposti alla luce, creando un effetto gradevole e sbarazzino. Le dotazioni della console rispecchiano quanto scritto sul sito del venditore: all'interno della piccola scatola troviamo una batteria (da inserire nell'apposito sportellino, facendo attenzione al giusto orientamento), l'alimentatore con presa italiana, una cartuccia 777777 in 1 ed un cavo audio-video per il collegamento della console alla TV.
GB Station (a sinistra, con relativi accessori) e Game Boy Advance SP.
L'hardware ricorda davvero tanto il Game Boy Advance SP: la console è più spessa ma molto più leggera, lo schermo ha un'apertura a molla che permette solamente due posizioni (aperto/chiuso) ed i pulsanti, compresi i due dorsali, sembrano discretamente reattivi al tocco, seppure un po' rumorosi. Lo schermo è più piccolo di quello montato sull'originale Nintendo, il led che segnala la carica della batteria è solamente uno e l'altoparlante è stato spostato da una posizione centrale alla zona laterale sinistra sotto la croce direzionale. Lo switch on/off è di fattura decisamente cheap, il pulsante originariamente previsto per attivare/disattivare l'illuminazione dello schermo diventa un comodo comando per il reset e la regolazione del volume, infine, non avviene con uno stiloso slide ma con una classicissima rotella, che dona alla GB Station un tocco leggermente retrò.
Meccanismi di apertura a confronto.
Il problema principale, c'era da aspettarselo, riguarda però lo slot per l'alloggiamento della cartuccia, che già ad una prima occhiata risulta decisamente più stretto dell'originale Nintendo: scopriremo all'accensione che la GB Station comprende già un certo numero di giochi al suo interno, ed utilizza la fessura situata nella sua parte inferiore per caricare altri titoli compresi in cartucce proprietarie (come la 777777 in 1 inclusa nella confezione) che nulla hanno a che vedere con quelle originali già in mio possesso. Superata la delusione, comunque sopportabile visto l'esborso di poco superiore ai 10 Euro, decido comunque di provare la console per verificare tre fattori che ancora mi incuriosiscono: la luminosità dello schermo, il numero reale e la qualità dei giochi disponibili, il funzionamento del collegamento alla televisione. All'accensione la console emette una tipica musichetta ad 8-bit e visualizza un menu 999999 in 1 dal quale è possibile scegliere quale gioco caricare: la presenza di Bugs Bunny (!) e la possibilità di visualizzare un'immagine di anteprima di ciascun titolo disponibile rendono questa presentazione semplice e simpatica. Le possibilità di scelta sono effettivamente 999999 ma sfogliando velocemente le pagine ci si accorge ben presto che i soli 15 titoli disponibili, tra originali 8-bit e cloni di vecchie glorie del passato, sono in realtà:
Plants VS Zombies, anno e produttore sconosciuti
Super MArio Bros, 1985, Nintendo
Super Contra, 1990, Konami
Metro-Cross, 1985, Namco
Adventures Of Lolo 2, 1987, Hal America Inc
Valkyrie No Bouken, 1986, Namcot
Sky Kid, 1985, Namco
Balloon Fight, anno e produttore sconosciuti
Battle City, anno e produttore sconosciuti
Astro Robo Sasa, 1985, ASCII
Chubby Cherub, 1986, Bandai
Bird Week, anno e produttore sconosciuti
Bomber Man, anno e produttore sconosciuti
Door Door, anno e produttore sconosciuti
Pac-Man, anno e produttore sconosciuti
Inserendo la cartuccia fornita insieme alla GB Station visualizziamo un menu caratterizzato da una diversa musica di sottofondo e da una differente mascotte. La scelta dei giochi, pur in presenza di 777777 possibilità di scelta, si riduce in questo caso a:
Crash, The Walt Disney Company, 2011
Angry Birds, anno e produttore sconosciuti
Babel, 1986, Namco
Adventures Of Lolo, 1987, Hal Laboratory
Burai Fighter, 1990, Taito
Family Jockey, 1987, Namco
Arkanoid, anno e produttore sconosciuti
Slalom, 1986, Rare Ltd
Elevator Action, 1985, Taito
Spartan X, 1985, Irem
Golf, anno e produttore sconosciuti
Muscle, 1986, Bandai
Pooyan, anno e produttore sconosciuti
Tank A 1990, anno e produttore sconosciuti
Zippy Race, anno e produttore sconosciuti
Lo schermo è ben illuminato, sicuramente superiore per leggibilità al dispositivo montato sulla prima versione del Game Boy Advance: provato con Super Mario Bros, il display offre un dettaglio ed una fluidità sufficienti. L'aggiornamento dell'immagine non è velocissimo e la risoluzione limitata rende poco agevole la lettura di alcune scritte meno contrastate ma nel complesso la resa è adatta all'utilizzo col tipo di gioco vintage (meno veloce e performante) proposto insieme alla console. Immediato e senza problemi si è rivelato poi il collegamento della console ad una TV LCD: l'audio (mono) è di buona qualità, così come l'immagine. Unico caveat, il gioco scelto per il test (Super Mario Bros) girava ad una velocità superiore a quella dell'originale PAL (che conosco bene, giocandoci tuttora), circostanza che ne altera sensibilmente la giocabilità.
Super Mario Bros in TV-OUT da GB Station.
Super Mario Bros su Nintendo PAL.
A conti fatti, cosa dire della GB Station? Il progetto è sicuramente improntato alla massima economicità: la console è molto leggera, il meccanismo di apertura a molla offre solamente due possibilità di scelta e non sembra garantire una grandissima longevità ed i pulsanti vanno utilizzati con decisione, a causa della ridotta sensibilità degli stessi. Lo schermo è funzionale allo scopo, l'audio possiede un volume sufficiente e si avverte la mancanza di un'uscita per le cuffie, opzione che diventa disponibile solo nel caso in cui si colleghi il cavetto audio ad una TV o ad un amplificatore. Il funzionamento con un monitor esterno avviene senza problemi, come detto, ed i trenta giochi realmente disponibili, benchè di qualità eterogenea, vengono a costare circa €0,34 l'uno, console compresa.
Il diverso spessore delle due console, in primo piano il GBA SP.
Come semplice passatempo, o console per i giocatori in erba o meno smaliziati, questa cineseria vale sicuramente il suo prezzo, non fosse altro per la sola presenza di classici intramontabili come Super Mario Bros, Super Contra, Bomber Man, Arkanoid ed Elevator Action. L'unica pecca risiede forse nell'eccessiva somiglianza di questo piccolo sistema con il Game Boy Advance di Nintendo, analogia che genera confusione circa il software che questo pseudo-clone è davvero in grado di masticare. La dicitura "Play all the GB Station color and GB Station games you already own!" apposta sulla confezione non fa altro che alimentare l'ambiguità, dal momento che tanti di noi possiedono già cartucce per GB (quel games you already own sembrerebbe far riferimento proprio a queste, dopo tutto) mentre vi sfido a trovare qualcuno in possesso - come vorrebbe farci intendere la scritta furbetta - di cartucce-gioco per GB Station vendute separatamente...