venerdì 13 novembre 2020

Recensione JEFF SCOTT SOTO - WIDE AWAKE

Jeff Scott Soto
Recensione: Wide Awake


Dicono che oggi le bandiere e gli attaccamenti non esistono più, nello sport come in altri ambiti nei quali sono gli interessi economici a far soffiare i venti e sbocciare/appassire gli amori. L’eccezione, tuttavia, desta sempre una forma di affetto sincero ed ammirazione convinta. E forse, dopo ben diciotto anni di sodalizio con Frontiers Music, Jeff Scott Soto potrebbe a buon titolo essere definito una eccezione ed una bandiera, così grandi sono la parte della sua carriera ad aver respirato l’aria del Bel Paese e l’affetto che lo lega ai colleghi dell’etichetta di Napoli (“my brothers and some of my sisters”, come lui stesso li definisce nella introduzione di “Holding On”). 

Artefice di un percorso consistente nella doppia veste di solista e band member, il cantante nato a Brooklyn cinquantacinque anni fa arriva oggi alla pubblicazione del suo settimo album in proprio che si avvale, per la composizione e la produzione, del contributo del nostro Alessandro Del Vecchio. Ed è un bel rock compatto e adrenalinico quello che continua ad essere proposto da Soto, dritto al punto senza perdersi in inutili manierismi. Il tipo di canzone che abita dentro a “Wide Awake” è quello che non aspetta altro che esplodere in un ritornello rotondo e corale come quello di “Lesson Of Love”: difficilmente lo si potrà definire uno schema originale, ma questa impostazione ha il pregio di una certa franchezza che finisce per contraddistinguere non solo il singolo disco, ma anche l’attitudine dei suoi esecutori. 

Inoltre la soluzione appare diretta ma mai semplicistica: per quanto la geometria di ogni traccia sia facilmente intuibile, ci sono all’angolo un allungo, un intreccio o un breve assolo a rimescolare le carte, e l’ascolto finisce sempre – complice l’esperienza lunga dei musicisti coinvolti – prima che affiori una sensazione di artificio e deja vu

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Casse Cerwin-Vega VE 5M
Amplificatore PS Audio Sprout
DAC 24-bit/192kHz Wolfson WM8524
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Filtro Audioquest Jitterbug
Software Foobar2000 ver. 1.3.16 (WIN10 Pro / 64bit)

mercoledì 11 novembre 2020

Recensione JADED HEART - STAND YOUR GROUND

Jaded Heart
Recensione: Stand Your Ground


Attivi fin dagli anni novanta e protagonisti di un percorso solido, che li ha visti pubblicare album con buona continuità nel corso degli anni, i Jaded Heart sono oggi un quintetto che conta membri tedeschi e svedesi, perciò costretto a colmare con l’uso delle tecnologie le distanze geografiche tra i suoi componenti. “Melodia Ma Con Deciso Piglio” potrebbe essere un modo efficace per definire la proposta del combo nordeuropeo. 

Se infatti i ritornelli presenti nell’album sono immediatamente cantabili, come da tradizione tedesca, il dinamismo di Peter Östros, Masa Eto e Bodo Stricker (rispettivamente chitarre e batteria) caratterizza in modo altrettanto marcato i tempi di “Stand Your Ground”. La title-track contiene tutto quanto è possibile trovare in questa nuova uscita. 

Al suddetto, piacevole dinamismo si accompagnano cori, un’alternanza strofa/chorus che è allo stesso tempo prevedibile e rassicurante e una produzione in grado di cogliere in maniera tecnicamente ineccepibile quella sintesi tra musicalità e potenza che diventa marchio di fabbrica, quando accalappiata nella sua forma più smagliante.


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sabato 7 novembre 2020

Recensione ANGELICA - ALL I AM

Angelica
Recensione: All I Am


Lana Lane, Saraya, Bonnie Raitt e Bonnie Tyler… di queste proposte ho sempre apprezzato l’accostamento di sonorità (più o meno hard) rock ad una idea moderna, adulta ed indipendente di femminilità, che esalta le voci delle interpreti per creare una alternativa valida e credibile alla proposta di impostazione maschile. 

Angelica Rylin, singer svedese/australiana già nota come frontwoman dei The Murder Of My Sweet, appartiene al filone delle artiste in grado di imprimere al disco un proprio carattere, che in “All I Am” è fatto di melodie dolci ed accomodanti, atmosfere accoglienti, suoni moderni ed una generale ascoltabilità che ne permea ogni istante. 

Dalle armonie accattivanti di “Time And Space” ai cori brillanti di “A Pounding Heart” e quelli più burrosi di “Angel”, questa nuova uscita di Frontiers troverà facili estimatori negli amanti di un rock quadrato e regolare, dall’incidere lineare e dall’ascolto facile facile, di quello crepuscolare che avvolto nei colori e nei sonni della sera sembra uscire dalle casse con fare ancora più sinuoso ed elegante.

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giovedì 5 novembre 2020

Recensione STARDUST - HIGHWAY TO HEARTBREAK

Stardust
Recensione: Highway To Heartbreak

Gli Stardust sono un gruppo di musicisti con base in Ungheria, terra dalla quale ricordo ancora l’ottimo – e leggermente più ruvido – “Time Is Waiting For No One” degli Hard (2010): gruppo anagraficamente giovane ma non di primissimo pelo, poichè la sua formazione risale al 2014, i nostri non fanno mistero di ispirarsi al rock melodico e all’AOR di stampo più classico per omaggiare le band come Def Leppard, Winger e Journey che con questa musica hanno colorato gli anni ottanta. 

Avvalendosi della collaborazione con Mark Spiro (Bad English, House of Lords, Giant) e con il chitarrista e produttore svedese Tommy Denander, il quintetto affida alla distribuzione di Frontiers un disco dal sapore tipicamente a stelle e strisce, capace di andare dritto al sodo senza inutili fronzoli né ambiziose pretese. Perfettamente a loro agio nello sganciare il primo ritornello dopo appena pochi secondi dalla pressione del tasto Play, gli Stardust dimostrano di sapere assemblare con mestiere ritmiche incalzanti ed ordinate, tastiere non troppo invasive, qualche gradevole assolo o intermezzo strumentale (“Hey Mother”) ed il cantato funzionale di Adam Stewart.

Se il quadro non vi sembra troppo eccitante è perché, in effetti, “Highway To Heartbreak” si presenta come una onesta somma di parti, ortodossa e dignitosamente derivativa (“Heartbreaker”) come sappiamo ormai realizzarle anche dalle nostre parti, prodotto con professionalità senza però che essa sia posta al servizio di un proponimento particolarmente personale, né raffinato. 

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Recensione THE SINNER'S BLOOD - THE MIRROR STAR

Sinner's Blood
Recensione: The Mirror Star


Vengono dal Cile i Sinner’s Blood, e gran parte delle fortune del loro disco di debutto, pubblicato da Frontiers, sono affidate al talento del frontman James Robledo (The Voice Chile) ed all’esperto chitarrista Nasson, polistrumentista qui anche in veste di compositore e produttore. Che tra i due ci sia una buona chimica, e che in qualche modo si siano scelti sulla base di una visione forte e condivisa, lo si intuisce facilmente avviando l’ascolto di “The Mirror Star”, un disco che fin dalle prime battute serve sul piatto una sferzata energica ed al tempo stesso melodica di hard’n’heavy di pregevole fattura. 

Molto del dinamismo di “The Mirror Star” risiede nel riffing agile di Nasson (“Awakening”): ben supportato da una instancabile sezione ritmica, il gruppo si pone sullo stesso livello dei migliori Firewind, dei dimenticati Blackstar Halo, degli amati Sentenced nei rari momenti in cui erano in vena di fare festa (“Kill Or Die”) oppure dei connazionali e sottovalutati Six Magics

E’ soprattutto la concentrazione chirurgica degli elementi a fare intuire, da subito, la bontà del risultato: benchè essa vada a discapito di quella varietà della quale in fondo nessuno ha davvero bisogno, non serve avventurarsi oltre i primi tre o quattro episodi della playlist per capire che i Sinner’s Blood hanno ben chiaro cosa vogliono suonare, come vogliono farlo e per quali caratteristiche vogliono essere tenuti in considerazione a partire da questo 2020.

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Recensione PRIDE OF LIONS - LION HEART

Pride Of Lions
Recensione: Lion Heart


Ancor prima che melodico, il rock dei Pride Of Lions potrebbe definirsi collaudato: giunta al sesto album, la band guidata dal frontman Toby Hitchcock e dal compositore e tastierista Jim Peterik (autore di “Eye Of The Tiger” per e con i suoi Survivor) ha saputo costruirsi una solida credibilità in ormai vent’anni di attività, nel corso dei quali ha legato sempre più saldamente il proprio nome alle preferenze più orecchiabili del mercato. 

Non potrebbe quindi suonare che dolce e cadenzata questa musica, matura ed espressiva come potevano esserlo gli stessi Survivor, i Lynyrd Skynyrd più arrembanti oppure un Meat Loaf mediamente ispirato a metà degli anni ottanta. I suoni rotondi della batteria, le frequenti rifiniture elettroniche ed un’impalcatura dei brani che più classica e prevedibile non si può caratterizzano un prodotto la cui principale prerogativa sembrerebbe quella di non offendere, né impegnare eccessivamente l’ascoltatore. 

Lion Heart” è un album fatto di ripetizioni innocenti ed una insistenza ostinata sugli stessi concetti, elementi forse banali ma che gli attribuiscono – e fa quasi simpatia ammetterlo – il senso di una certa convinzione: nonostante i motivi per scrivere a casa non siano molti, nel disco si avverte effettivamente un certo orgoglio che finisce col conquistare. 

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