lunedì 14 ottobre 2013

Recensione MOTORHEAD - AFTERSHOCK


La voglio cruda e grezza questa recensione, ruvida e ignorante, fisica e sprezzante nei confronti dei cenni biografici, delle note stilistiche, delle considerazioni che insaporiscono le minestre letterarie pur senza aggiungere nulla di sostanziale. Di sostanza, invece, dai Motorhead ce ne aspettiamo tanta: in fondo alla band di Lemmy chiediamo soltanto di restituirci ogni volta lo spirito più autentico e carnale del rock'n'roll, quello che perpetua una leggenda vivente sempre uguale a se stessa, contenta di infischiarsene del tempo che passa e delle mode che cambiano. I Motorhead sono potenza e volume, sensibilità nascoste e malinconie latenti, velocità inarrestabili e luoghi comuni che sui fisici segnati di questi tre musicisti (Mikkey Dee è sempre in gran forma, però) acquistano una nuova ed incorruttibile credibilità. Io cominciai ad ascoltarli attorno al 1987, ai tempi di Rock'N'Roll: cresciuto con le cassette di Sigue Sigue Sputnik, Rondò Veneziano e Dire Straits, l'impatto con il CD prestatomi dall'amico e compagno di classe Antonio non fu dei più positivi, tanto che gli restituii il dischetto il giorno successivo. A distanza di pochi giorni, senza nemmeno ricordare il perchè, gli chiesi però di concedermi una seconda possibilità e già dal successivo ascolto fui rapito per sempre. Tralasciando i grandi classici, che appartengono ad un'età che non ho vissuto, i Motorhead hanno costituito per tanti anni uno dei miei gruppi preferiti, insieme agli Almighty di Ricky Warwick ed ai danesi D-A-D: 1916, Bastards, Sacrifice, Overnight Sensation, Snake Bite Love ed Inferno sono stati alle mie orecchie dischi degnissimi, compagni degli anni dell'Università e tanto più apprezzabili quanto più la sfida all'anagrafe si faceva impari ed appassionante. Ricordo che nella mia cameretta appesi al contrario un poster di Metal Hammer, capovolto di 180 gradi, sostenendo che il sangue che sarebbe andato alla testa dei quattro (nel poster c’era anche Wurzel) avrebbe potuto farli pentire di pubblicare dischi fatti con lo stampino, che all’epoca mi costavano risparmi piuttosto sudati. Gli ultimi acciacchi di Lemmy (classe 1945), tre anni in più di Ozzy ma portati meglio, hanno fatto temere i fan di tutto il mondo, con preoccupazione e susseguirsi-incontrollato-di-voci culminati con l’improvvisa interruzione del concerto al Wacken Open Air del 2 Agosto scorso: è dunque con grande piacere che accolgo la possibilità di ascoltare questo nuovo album, di concedermi una dose ulteriore di deliziosa sbobba, impeto allo stato puro e deforme senilità. Ogni uscita dei Motorhead potrebbe essere l'ultima, mi dico da metallaro ansioso, salvo poi rassicurarmi sul fatto che questi tre sono davvero immortali, e con buona probabilità ci seppelliranno tutti. 


La tracklist di Aftershock comprende quattordici brani, per un totale di tre quarti d'ora abbondanti di musica, ed il compito di aprire per la ventunesima volta le danze - tanti sono gli album registrati in studio - spetta al mid-tempo di Heartbreaker, brano per fortuna in pieno stile Motorhead: il succo è tutto nella ripetitività della strofa, negli stacchi brevettati di Mikkey, nelle chitarre affamate che si concedono un po' alla volta, fino all'inevitabile assolo. Di questa prima traccia piace la cura (apprezzabili, quasi raffinati i cori in pudico sottofondo), la relativa melodia, la rotondità matura che scongiura quella semplicità punk che, pur appartenendo a pieno titolo al sound della band (Queen Of The Damned), si fa sempre più distante mano a mano che il peso degli anni e del mondo (ho sotto mano il CD di Weight Of The World dei Metal Church e volevo assolutamente usare l’espressione...) si accumulano sulle spalle dei tre. La successiva Coup De Grace si mantiene su coordinate che vorrei definire giuste per i Motorhead del 2013: il dinamico trio gestisce senza eccessivi affanni un monocorde pieno e potente al quale non manca una certa cesellatura, tra il dinamismo degli accordi, la vena rock'n'roll degli assoli ed una sostanziale sensazione di coerenza, placement, che fa di Aftershock un prodotto contemporaneo e correttamente contestualizzato. Il blues di Lost Woman Blues, proposto dopo appena due brani, conferma l'impressione di un gruppo attento al cambiamento, che senza snaturarsi coglie con intelligenza la possibilità di mutare registro e soffermarsi sull'atmosfera. Lemmy si conferma davvero perfetto per questo genere di canto dilatato e sofferto (a me era piaciuto anche ai tempi di Don't Let Daddy Kiss Me), non a caso riproposto qualche minuto più tardi con l’interessante e pulita Dust And Glass, ed una volta entrati nello spirito del disco non dispiace ritrovare l’icona inglese su corde così differenti, pure un filo seventies (Silence When You Speak To Me). Paralyzed sembra Burner solo più spompa, direbbe Renzi, mentre End Of Time torna a spingere sull'acceleratore forte di un riffing che farà divertire il pubblico dal vivo, ma che all’ascolto casalingo perde di freschezza nel giro di una manciata di battute; molto meglio Do You Believe, veleggiante su quel tipico Motorhead-tempo che ti sembra di vederlo, Mikkey, quasi fluttuare divertito sullo sgabello della batteria, biondo crine al vento sull’azzardo sincopato di Going To Mexico come se gli ultimi trent'anni non fossero mai passati. Chitarra e basso si ritrovano con il feeling di sempre, intrecciandosi e ricomponendo le dissonanze, quasi a voler dirci che i Motorhead ci sono, volenterosi come quegli attaccanti invecchiati che ora segnano meno ma sudano uguale, e con loro quella chimica che li ha saputi tenere vivi ed uniti. Una scaletta così lunga amplifica il rischio di episodi più anonimi, che nel caso di Aftershock hanno il nome di Death Machine, Crying Shame, Keep Your Powder Dry e Knife: la durata contenuta di tutti i pezzi scongiura comunque il rischio di noia ed irritazione, dal momento che canzoni belle e meno belle passano tutte con uguale & democratica disinvoltura. Non servono ripetuti ascolti per battezzare Aftershock come un album ampiamente sufficiente, abbondantemente passabile, che assolve alla sua missione esistenziale con decoro elementare, generosità, cuore. Il disco è curato, lo si coglie negli arrangiamenti, nelle influenze, nella voce di un Lemmy ancora in vena di esperimenti, nel suono croccante e nella prestazione fisica di un Mikkey Dee che pare rimbalzare sulle pelli leggiadro come Clooney in assenza di gravità. Tuttavia il fan dovrà accontentarsi di questo, che tutto sommato non è  nemmeno poco, perchè l'album manca di cattiveria, sarcasmo, potenza bruta ed amabile scorrettezza politica, caratteristiche di quel suono senza compromessi (penso a sublimi vulgar display of power come I Am The Sword, ad esempio) che oggi si sceglie prudentemente di evitare, scongiurando il rischio di diventare una fotocopia di se stessi che da accettabile - qual è - si faccia patetica ed annaspante. Il 2013 ci restituisce un trio performante e consapevole, che gigioneggia con la classe di sempre pubblicando gli esiti di un check-up più utili a rassicurare la base dei fan sul suo stato di salute che non a stupirli con un guizzo improbabile, al quale Aftershock decide di rinunciare senza nemmeno troppo rimpianto.

[6]

Il genere è... Motorhead, 2013

UDR GmbH

Tracklist:
  1. Heartbreaker
  2. Coup de Grace
  3. Lost Woman Blues
  4. End Of Time
  5. Do You Believe
  6. Death Machine 
  7. Dust And Glass
  8. Going To Mexico
  9. Silence When You Speak To Me
  10. Crying Shame
  11. Queen Of The Damned
  12. Knife
  13. Keep Your Powder Dry
  14. Paralyzed
Line-up:

Lemmy (Voce, Basso)
Phil Campbell (Chitarra)
Mikkey Dee (Batteria)

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