martedì 16 giugno 2020

Recensione VEGA - GRIT YOUR TEETH


Vega
Recensione: Grit Your Teeth



Una cosa è certa: i Vega sanno fare quell’hard rock all’inglese, melodico e sporco allo stesso tempo, che negli anni ottanta/novanta ha introdotto molti di noi alle sonorità più croccanti e consistenti. Se in quei rigogliosi anni avevamo – fra gli altri – Little Angels (1984), Zodiac Mindwarp (1985), Gun (1987), e Wildhearts (1989, temo che nessuno ricorderà invece le meteore Goat di “Everybody Wants To Be There” che potevi acquistare alla Tower Records con la formula soddisfatti e rimborsati, oppure gli Scat Opera di “About Time”), oggi a tenere verde quella memoria anglosassone ci sono ad esempio C.O.P. Uk (2005, ex Crimes Of Passion), i nord-irlandesi Stormzone (2004) e – per l’appunto – gli autori di “Grit Your Teeth”, sesto album dalla fondazione datata 2008. 

I tratti che fanno di questo lavoro un prodotto squisitamente “UK” sono anzitutto l’appeal radiofonico e la voglia di puntare in alto: il disco suona esplosivo e larger than life (“Perfection”), riffato e corale senza mai un’esitazione, ispirandosi ad un formato semplice ma che in tempi un po’ fiacchi come quelli attuali appare quasi rivoluzionario, come se gli entusiasmi di un tempo potessero rivivere grazie alla formula magica infusa dall’energico frontman Nick Workman e dai suoi cinque compagni.

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Ascoltato con
Cuffie Superlux HD-668B
DAC LH Labs Geek Pulse (ESS9018K2M Core)
Alimentatore LH Labs Linear Power Supply
Filtro Audioquest Jitterbug
Software Foobar2000 ver. 1.3.16 (WIN10 Pro / 64bit)

sabato 13 giugno 2020

Recensione PARALYDIUM - WORLDS BEYOND


Paralydium

Recensione: Worlds Beyond




“Certain interplay”. “Integrate all the elements”. “Put the pieces together”. In mezzo a tante espressioni altisonanti con le quali gruppi ed etichette introducono il nuovo imperdibile album, la scelta degli svedesi Paralydium di presentare il proprio lavoro come, prima di ogni altra cosa, la composta evoluzione di una intuizione, mi ha affascinato per il suo carattere squisitamente pratico e terreno. 

Questi cinque avevano sostanzialmente un problema: quello di combinare in una forma sostenibile e d’impatto una collezione di riff, groove e passaggi più meditativi elaborati a partire dal 2015, anno nel quale pubblicarono il primo EP. E quella della band fondata dal chitarrista John Berg un’opera compiuta e potente, sinfonica e barocca, lo è diventata davvero: fin dal prime battute lo stile asciutto del cantante Mikael Sehlin ben si sposa con costruzioni ritmiche complesse, impreziosite da piccoli passaggi strumentali e sostenute da ritornelli fieri della semplicità con la quale risolvono tutto ciò che li ha preceduti. 

Il paragone più azzeccato, pur potendosi citare a pieno diritto Symphony X, Pagan’s Mind, Seventh Wonder e Dream Theater, è quello con i Kamelot di Poetry For The Poisoned (2010). Il genere proposto è infatti quello di un progressive tecnico e cinematografico, che sa alternare con facilità tinte più oscure con aperture facili all’orecchio, forme sinuose, albe soleggiate (“Awakening”) e sviluppi melodici propri di generi più rilassati.

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venerdì 12 giugno 2020

Recensione ELECTRIC MOB - DISCHARGE


Electric Mob
Recensione: Discharge



Come la Danimarca ai Campionati Europei del 1992, Grecia e Brasile sono sempre più spesso inaspettati e convincenti outsider quando si parla di hard rock, street e glam: in quello che molte delle loro band sfornano puoi ancora sentire il gusto, respirare la passione e quasi toccare quel movimento ambizioso che in altre – più adagiate – latitudini sembra aver perso di intensità. 

Ecosostenibile e cosmopolita, Curitiba è un’importante centro culturale, politico ed economico dell’America Latina, nonché grembo dal quale ha avuto origine la storia degli Electric Mob

Fondati nel 2016 e fronteggiati da un concorrente di The Voice Brasil 2016 (quel Renan Zonta già recentemente all’opera sull’album di Magnus Karlsson), i quattro sono l’ennesima scoperta con la quale Frontiers Records intende solleticare i nostalgici delle sonorità di Led Zeppelin, Pearl Jam, Alice in Chains, Foo Fighters, Arctic Monkeys ed Audioslave.

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giovedì 11 giugno 2020

Recensione MAGNUS KARLSSON'S FREE FALL - WE ARE THE NIGHT


Magnus Karlsson's Free Fall
Recensione: We Are The Night



Magnus Karlsson, ancor prima che un talentuoso musicista, potrebbe essere definito un asset (“qualunque entità possa essere determinata e valorizzata in termini finanziari“), tanto valido e determinante è stato negli anni il suo contributo alle cause di Allen/Lande, Allen/Olzon, Starbreaker, Bob Catley e Kiske/Somerville… senza dimenticare Primal Fear ed una carriera solista che lo vede oggi pubblicare il terzo album. 

Del polistrumentista e compositore svedese avevo già avuto modo di apprezzare il convincente debutto datato 2013, e confesso che l’idea di un more of the same non mi sarebbe affatto dispiaciuta. 

D’altronde Karlsson è personaggio divisivo dalle idee piuttosto chiare (“Se non sai scrivere canzoni e non sei in una band valida… tutto si vanifica”), che con il suo tocco ha contribuito alle proprie ed altrui fortune dimostrando in ogni occasione non solo una grande sensibilità nell’esaltare le caratteristiche degli artisti che lo hanno accompagnato, ma anche la capacità di scrivere canzoni brillanti, con un senso ed una identità coerenti con la solidità delle sue posizioni.

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domenica 7 giugno 2020

Recensione BRANT BJORK - BRANT BJORK


Brant Bkork
Recensione: Brant Bjork




Ambasciatore del Californian desert rock, Brant Bjork giunge con questo lavoro omonimo alla tredicesima tappa di una carriera che lo ha visto agitarsi dietro le pelli per Kyuss, Vista China e Fu Manchu. E’ però un deserto dolce ed innamorato, quello narrato da Bjork: benchè asciutti nei suoni, i suoi panorami non sono aridi, né le sue immagini confuse dalle ondate di colore che si levano dall’asfalto incandescente. 

L’artista di Palm Desert ha oggi poco a che spartire con i binari corrosi dalla ruggine di “Blues For The Red Sun” (Kyuss, 1992) o con lo stoner metal degli Out Of Order (Stranded, 1996): qui c’è piuttosto un incidere dolcemente ipnotico (“Mary”), una rilassatezza che sa di siesta, una progressione non troppo pesante e l’abilità nel fare di ogni sussulto – fosse anche solo attraverso un lick di chitarra – un piccolo evento portatore di freschezza. Non c’è dunque il deserto – quello scomodo – al centro del racconto, ma piuttosto la relazione complicata che ognuno può instaurare con i suoi spazi, con i suoi silenzi e con le storie che si intrecciano tra i granelli delle sue sabbie. 

E’ grazie alle tinte tutto sommato sobrie che caratterizzano questo quadro che basta poco per accendere il groove: “Jesus Was A Bluesman” potrà anche parere poca cosa, ma il drive con il quale riprende ogni sua irriverente strofa ammicca e sprona, come una versione classic di “Out Of The Sun” dei Motorhead (“Sacrifice”, 1995).

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