venerdì 18 dicembre 2020

Recensione UNRULY CHILD - OUR GLASS HOUSE

Unruly Child
Recensione: Our Glass House


Formatisi nel 1991, sciolti nel 1993 ed artisticamente resuscitati dalle amorevoli cure di Frontiers nel 2010, gli statunitensi Unruly Child hanno finalmente trovato una continuità che da allora li ha visti affacciarsi regolarmente sulle classifiche ogni due o tre anni. Ulteriormente rinvigoriti dal ritorno in formazione dei tre membri originali Marcie Michelle Free, Bruce Gowdy e Guy Allison, i cinque danno oggi alle stampe un disco di qualità e di quantità, con dodici-tracce-dodici ai quali affidano il compito di presentare un concetto di rock melodico che, fin dalle prime battute, non appare per nulla scontato. 

Se c’è una cosa che non difetta ad “Our Glass House”, infatti, questa è la personalità: lo stile dolce e spalmato dei nostri potrebbe essere una versione dei Great White attualizzata nei suoni, qui più freddi, riverberati e meccanici. Ma anche una citazione dotta degli ZZ Top. Oppure ancora il frutto di un ripensamento che trasforma il meglio dell’AOR in un connubio originale. 

Questo fortunato amalgama di melodie liquide, sonorità moderne ed una sottile inquietudine di fondo (le sirene di “Say What You Want” mi hanno ricordato l’intro di “Dr. Feelgood”) fa della “casa di vetro” un prodotto decisamente interessante, a metà tra qualcosa di immediatamente cantabile ed una colonna sonora piena ed avvolgente che può essere assorbita con la pelle, ancor prima che con le orecchie. 

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domenica 6 dicembre 2020

Recensione ARRAYAN PATH - THE MARBLE GATES TO APEIRON

Arrayan Path
Recensione: The Marble Gates To Apeiron


Con “The Marble Gates To Apeiron” gli Arrayan Path mettono l’ottavo suggello ad una carriera che, benchè forse priva di riconoscimenti eclatanti da parte della critica e dei social, li ha visti calcare le scene da oltre venti lunghi anni (il demo “Return To Troy” è del 1999). 

E così dalle spiagge cipriote arriva un “lyrical epic-power”, cantatissimo come l’azzeccata definizione scelta dalla stessa band lascerebbe presagire. Nonostante una certa opulenza ritmica, infatti, TMGTA è un album che fa leva soprattutto sulle sue parti cantate, ora affidate alla prova ordinata e pulita di Nicholas Leptos, ora ai rinforzi corali che lo aiutano a sottolineare i passaggi più travolgenti (come il singolo “A Silent Masquerade”). 

Al di là delle aspettative che potrebbero essere generate dalle mire epiche del quartetto, il disco si fa apprezzare soprattutto per il suo incedere ordinato, complice il mixing di Simone Mularoni presso il Domination Studio di San Marino. 

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Recensione EAST TEMPLE AVENUE - BOTH SIDES OF MIDNIGHT

East Temple Avenue
Recensione: Both Sides Of Midnight

Chitarrista, autore, produttore e conduttore radiofonico, l’australiano Darren Philips torna a tre anni di distanza da “Volume One of The Darren Phillips Project”, accompagnato questa volta da una band – con la quale ha già pubblicato due apprezzati singoli – nella cui formazione trovano posto musicisti distribuiti tra Stati Uniti, terra dei canguri e Svezia come Dennis Butabi Borg (Cruzh) al basso, il chitarrista Philip Lindstrand (Find Me, Arkado), Herman Furin (Work of Art) alle pelli e Robbie LaBlanc (Find Me, Blanc Faces) al microfono. 

Per quanto “Both Sides Of Midnight” non possa contare su una produzione propriamente opulenta, le linee melodiche interpretate con piglio appassionato da LaBlanc sono ben supportate da cori ora languidi ora grintosamente femminili (“Forever Yours”), tastiere a profusione ed assoli di chitarra che non solo sono tecnicamente ineccepibili, ma posseggono anche quella vibrazione sexy ed ammiccante tipica degli anni ottanta nei quali questo disco aspira a farci sprofondare. 

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venerdì 13 novembre 2020

Recensione JEFF SCOTT SOTO - WIDE AWAKE

Jeff Scott Soto
Recensione: Wide Awake


Dicono che oggi le bandiere e gli attaccamenti non esistono più, nello sport come in altri ambiti nei quali sono gli interessi economici a far soffiare i venti e sbocciare/appassire gli amori. L’eccezione, tuttavia, desta sempre una forma di affetto sincero ed ammirazione convinta. E forse, dopo ben diciotto anni di sodalizio con Frontiers Music, Jeff Scott Soto potrebbe a buon titolo essere definito una eccezione ed una bandiera, così grandi sono la parte della sua carriera ad aver respirato l’aria del Bel Paese e l’affetto che lo lega ai colleghi dell’etichetta di Napoli (“my brothers and some of my sisters”, come lui stesso li definisce nella introduzione di “Holding On”). 

Artefice di un percorso consistente nella doppia veste di solista e band member, il cantante nato a Brooklyn cinquantacinque anni fa arriva oggi alla pubblicazione del suo settimo album in proprio che si avvale, per la composizione e la produzione, del contributo del nostro Alessandro Del Vecchio. Ed è un bel rock compatto e adrenalinico quello che continua ad essere proposto da Soto, dritto al punto senza perdersi in inutili manierismi. Il tipo di canzone che abita dentro a “Wide Awake” è quello che non aspetta altro che esplodere in un ritornello rotondo e corale come quello di “Lesson Of Love”: difficilmente lo si potrà definire uno schema originale, ma questa impostazione ha il pregio di una certa franchezza che finisce per contraddistinguere non solo il singolo disco, ma anche l’attitudine dei suoi esecutori. 

Inoltre la soluzione appare diretta ma mai semplicistica: per quanto la geometria di ogni traccia sia facilmente intuibile, ci sono all’angolo un allungo, un intreccio o un breve assolo a rimescolare le carte, e l’ascolto finisce sempre – complice l’esperienza lunga dei musicisti coinvolti – prima che affiori una sensazione di artificio e deja vu

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mercoledì 11 novembre 2020

Recensione JADED HEART - STAND YOUR GROUND

Jaded Heart
Recensione: Stand Your Ground


Attivi fin dagli anni novanta e protagonisti di un percorso solido, che li ha visti pubblicare album con buona continuità nel corso degli anni, i Jaded Heart sono oggi un quintetto che conta membri tedeschi e svedesi, perciò costretto a colmare con l’uso delle tecnologie le distanze geografiche tra i suoi componenti. “Melodia Ma Con Deciso Piglio” potrebbe essere un modo efficace per definire la proposta del combo nordeuropeo. 

Se infatti i ritornelli presenti nell’album sono immediatamente cantabili, come da tradizione tedesca, il dinamismo di Peter Östros, Masa Eto e Bodo Stricker (rispettivamente chitarre e batteria) caratterizza in modo altrettanto marcato i tempi di “Stand Your Ground”. La title-track contiene tutto quanto è possibile trovare in questa nuova uscita. 

Al suddetto, piacevole dinamismo si accompagnano cori, un’alternanza strofa/chorus che è allo stesso tempo prevedibile e rassicurante e una produzione in grado di cogliere in maniera tecnicamente ineccepibile quella sintesi tra musicalità e potenza che diventa marchio di fabbrica, quando accalappiata nella sua forma più smagliante.


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sabato 7 novembre 2020

Recensione ANGELICA - ALL I AM

Angelica
Recensione: All I Am


Lana Lane, Saraya, Bonnie Raitt e Bonnie Tyler… di queste proposte ho sempre apprezzato l’accostamento di sonorità (più o meno hard) rock ad una idea moderna, adulta ed indipendente di femminilità, che esalta le voci delle interpreti per creare una alternativa valida e credibile alla proposta di impostazione maschile. 

Angelica Rylin, singer svedese/australiana già nota come frontwoman dei The Murder Of My Sweet, appartiene al filone delle artiste in grado di imprimere al disco un proprio carattere, che in “All I Am” è fatto di melodie dolci ed accomodanti, atmosfere accoglienti, suoni moderni ed una generale ascoltabilità che ne permea ogni istante. 

Dalle armonie accattivanti di “Time And Space” ai cori brillanti di “A Pounding Heart” e quelli più burrosi di “Angel”, questa nuova uscita di Frontiers troverà facili estimatori negli amanti di un rock quadrato e regolare, dall’incidere lineare e dall’ascolto facile facile, di quello crepuscolare che avvolto nei colori e nei sonni della sera sembra uscire dalle casse con fare ancora più sinuoso ed elegante.

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giovedì 5 novembre 2020

Recensione STARDUST - HIGHWAY TO HEARTBREAK

Stardust
Recensione: Highway To Heartbreak

Gli Stardust sono un gruppo di musicisti con base in Ungheria, terra dalla quale ricordo ancora l’ottimo – e leggermente più ruvido – “Time Is Waiting For No One” degli Hard (2010): gruppo anagraficamente giovane ma non di primissimo pelo, poichè la sua formazione risale al 2014, i nostri non fanno mistero di ispirarsi al rock melodico e all’AOR di stampo più classico per omaggiare le band come Def Leppard, Winger e Journey che con questa musica hanno colorato gli anni ottanta. 

Avvalendosi della collaborazione con Mark Spiro (Bad English, House of Lords, Giant) e con il chitarrista e produttore svedese Tommy Denander, il quintetto affida alla distribuzione di Frontiers un disco dal sapore tipicamente a stelle e strisce, capace di andare dritto al sodo senza inutili fronzoli né ambiziose pretese. Perfettamente a loro agio nello sganciare il primo ritornello dopo appena pochi secondi dalla pressione del tasto Play, gli Stardust dimostrano di sapere assemblare con mestiere ritmiche incalzanti ed ordinate, tastiere non troppo invasive, qualche gradevole assolo o intermezzo strumentale (“Hey Mother”) ed il cantato funzionale di Adam Stewart.

Se il quadro non vi sembra troppo eccitante è perché, in effetti, “Highway To Heartbreak” si presenta come una onesta somma di parti, ortodossa e dignitosamente derivativa (“Heartbreaker”) come sappiamo ormai realizzarle anche dalle nostre parti, prodotto con professionalità senza però che essa sia posta al servizio di un proponimento particolarmente personale, né raffinato. 

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Recensione THE SINNER'S BLOOD - THE MIRROR STAR

Sinner's Blood
Recensione: The Mirror Star


Vengono dal Cile i Sinner’s Blood, e gran parte delle fortune del loro disco di debutto, pubblicato da Frontiers, sono affidate al talento del frontman James Robledo (The Voice Chile) ed all’esperto chitarrista Nasson, polistrumentista qui anche in veste di compositore e produttore. Che tra i due ci sia una buona chimica, e che in qualche modo si siano scelti sulla base di una visione forte e condivisa, lo si intuisce facilmente avviando l’ascolto di “The Mirror Star”, un disco che fin dalle prime battute serve sul piatto una sferzata energica ed al tempo stesso melodica di hard’n’heavy di pregevole fattura. 

Molto del dinamismo di “The Mirror Star” risiede nel riffing agile di Nasson (“Awakening”): ben supportato da una instancabile sezione ritmica, il gruppo si pone sullo stesso livello dei migliori Firewind, dei dimenticati Blackstar Halo, degli amati Sentenced nei rari momenti in cui erano in vena di fare festa (“Kill Or Die”) oppure dei connazionali e sottovalutati Six Magics

E’ soprattutto la concentrazione chirurgica degli elementi a fare intuire, da subito, la bontà del risultato: benchè essa vada a discapito di quella varietà della quale in fondo nessuno ha davvero bisogno, non serve avventurarsi oltre i primi tre o quattro episodi della playlist per capire che i Sinner’s Blood hanno ben chiaro cosa vogliono suonare, come vogliono farlo e per quali caratteristiche vogliono essere tenuti in considerazione a partire da questo 2020.

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Recensione PRIDE OF LIONS - LION HEART

Pride Of Lions
Recensione: Lion Heart


Ancor prima che melodico, il rock dei Pride Of Lions potrebbe definirsi collaudato: giunta al sesto album, la band guidata dal frontman Toby Hitchcock e dal compositore e tastierista Jim Peterik (autore di “Eye Of The Tiger” per e con i suoi Survivor) ha saputo costruirsi una solida credibilità in ormai vent’anni di attività, nel corso dei quali ha legato sempre più saldamente il proprio nome alle preferenze più orecchiabili del mercato. 

Non potrebbe quindi suonare che dolce e cadenzata questa musica, matura ed espressiva come potevano esserlo gli stessi Survivor, i Lynyrd Skynyrd più arrembanti oppure un Meat Loaf mediamente ispirato a metà degli anni ottanta. I suoni rotondi della batteria, le frequenti rifiniture elettroniche ed un’impalcatura dei brani che più classica e prevedibile non si può caratterizzano un prodotto la cui principale prerogativa sembrerebbe quella di non offendere, né impegnare eccessivamente l’ascoltatore. 

Lion Heart” è un album fatto di ripetizioni innocenti ed una insistenza ostinata sugli stessi concetti, elementi forse banali ma che gli attribuiscono – e fa quasi simpatia ammetterlo – il senso di una certa convinzione: nonostante i motivi per scrivere a casa non siano molti, nel disco si avverte effettivamente un certo orgoglio che finisce col conquistare. 

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lunedì 12 ottobre 2020

Recensione BLUE OYSTER CULT - THE SYMBOL REMAINS

Blue Oyster Cult
Recensione: The Symbol Remains


La cartella stampa singolarmente scarna approntata da Frontiers sembra fatta apposta per dirci che qui la sostanza sta altrove, perché le parole poco possono aggiungere ad una storia lunga più di cinquanta anni. E l’atteggiamento “a capofitto” col quale ci si vuole immergere tra le note di “The Symbol Remains” testimonia la freschezza e l’imprevedibilità delle quali Eric Bloom e compagni sono ancora alfieri. 

Bastano infatti pochi secondi di “That Was Me”, con il suo riff pesante e diretto, per rassicurare anche i più dubbiosi che i Blue Oyster Cult sono ancora sul pezzo, energici e convinti come non mai. A distanza di quasi vent’anni dalla pubblicazione di “Curse Of The Hidden Mirror”, autrice da sempre di uno stile unico e personale che fonde con intelligenza ed apparente naturalezza riff punk, intermezzi progressive e cori ammiccanti ed orecchiabili, la band di New York sembra aver azzeccato la mossa stilistica giusta già da quel 1967 che la vide venire alla luce: il mix di colori e territori mai abbandonato negli anni rimane infatti un potente marchio di fabbrica ed una citazione continua che, sfuggendo ad una catalogazione precisa, è tanto inafferabile quanto resistente alle mode ed agli umori, alle correnti ed alle eccessive sofisticazioni, suonando personale pur nella diversità delle contaminazioni. 

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venerdì 2 ottobre 2020

Recensione PERFECT PLAN - TIME FOR A MIRACLE

Perfect Plan
Recensione: Time For A Miracle


Un po’ come Svizzera/Cioccolato ed Italia/Pizza, il binomio Svezia/Rock melodico ha più volte dimostrato di funzionare a meraviglia: forti di una tradizione cantabile che affonda le sue radici nelle prime edizioni dell’Eurovision Song Contest, ancor prima della ribalta internazionale raggiunta dagli Abba, la cultura nordica ha sempre trovato ad essa congeniale la composizione di melodie semplici ed accattivanti, di richiamo universale perché distillate nelle loro forme più asettiche e pure. 

I Perfect Plan, quintetto di Örnsköldsvik (ok dai, una piccola cittadina in Svezia) al secondo disco per Frontiers dopo il fortunato “All Rise” (2018), si inseriscono dunque in un filone collaudato e fortunato, al punto che la prevedibilità del (buon) risultato può diventare essa stessa un elemento di pericolo per la godibilità del loro nuovo prodotto. 

La cadenza regolare e ferrosa della title track, unita alla prova tirata di Kent Hilli (frontman ed autentico mattatore, come si diceva una volta, nelle ballad “Fighting To Win” e “Don’t Leave Me Here Alone”), dicono anzitutto che il rock può dormire anche questa volta sonni tranquilli: il disco suona infatti pesante al punto giusto, le tastiere di Leif Ehlin riempiono i dialoghi con discrezione ed il disco mantiene lungo tutta la sua generosa durata una degna consistenza fatta di riff gradevoli ed interpretazioni credibili.

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Recensione RISING STEEL - FIGHT THEM ALL

Rising Steel
Recensione: Fight Them All


I Rising Steel sono un quintetto proveniente dalla città francese di Grenoble, già autori di un EP (“Warlord”, 2014) e protagonisti di una buona attività live che li ha visti condividere il palco con Jaded Heart, Sister Sin, Nightmare, ADX, Nashville Pussy ed Annihilator. A distanza di quattro anni dalla prima uscita sulla lunga distanza (“Return Of The Warlord” è del 2016), la band fa oggi il suo ritorno con “Fight Them All”, pubblicato da Frontiers Records con la volontà di accontentare tutti i fan delle sonorità anni ottanta, NWOBHM, hard rock e thrash metal. 

I transalpini sono infatti autori di un heavy compatto, pieno, tradizionale nelle sue strutture ma attualizzato con qualche artificio produttivo per espanderne la portata, con veloci cavalcate che spezzano il ritmo e con chorus di difficile assimilazione che oggi sembrano l’ultimo grido. 

Le soluzioni ritmiche sono sempre interessanti e la presenza di due chitarristi in formazione è spesso utilizzata per creare soluzioni d’effetto (“Steel Hammer”): se anche il dinamismo non manca, l’ispirazione all’heavy classico fa però spesso privilegiare un approccio maschio ed epico/ortodosso, complice la prestazione convinta del frontman Emmanuelson, a discapito della soluzione raffinata o dell’incastro perfetto che alla fine dell’ascolto risulteranno entrambi non pervenuti.

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domenica 13 settembre 2020

Recensione LANDFALL - THE TURNING POINT

Landfall
Recensione: The Turning Point


Il Brasile si conferma terreno fertile per il revival hard rock del quale il mercato non sembra mai sazio: dopo le buone prove di Desert Dance o Electric Mob è ora la volta dei Landfall, band di Curitiba costruita attorno all’esperto frontman Gui Oliver (Auras) che debutta per Frontiers dopo una vita precedente spesa sotto il nome di W.I.L.D. 

L’hard proposto dai quattro è del tipo agile e scattante, melodico ma trascinante solo a tratti: le coordinate sono quelle dei Firewind meno in vena, oppure di alcune formazioni italiane perennemente alle prese con un complesso di inferiorità che le spinge a strafare per dimostrare, piuttosto che per suonare. Tornando a Oliver e compagni, non vi è davvero nulla di inascoltabile in “The Turning Point”, ma nemmeno niente che giustifichi una ricerca – Google Earth alla mano – lunga circa diecimila kilometri. 

Se è vero che alcuni intermezzi denotano un’apprezzabile sensibilità (“No Way Out”) ed il livello tecnico espresso dal disco è superiore alla media, la sensazione che rimane al recensore imbruttito al termine di ogni traccia è quella di non aver capito esattamente cosa ha ascoltato, nè perché.

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lunedì 31 agosto 2020

Recensione RAMOS - MY MANY SIDES

Ramos
Recensione: My Many Sides


Lasciati gli Hardline, formazione nella quale aveva militato per tredici lunghi anni, il chitarrista Josh Ramos pubblica il suo album di debutto per Frontiers e lo fa radunando attorno a sé un gruppetto di amici niente male: non servono molti ascolti per comprendere come circondarsi non solo di comprimari capaci, ma anche di una girandola di interpreti che spaziano da Eric Martin a Danny Vaughn, passando per Herry Hess e Tony Harnell, sia un po’ come stipulare un’assicurazione sulla riuscita del lavoro. 

Distante dalla pulizia formale e stilistica della band di provenienza, Ramos propone dodici tracce di rock sporco e sanguigno, affidato senza riserve all’estro delle sue linee vocali. Disco di atmosfere dense e sentimenti forti (“Unbroken”), “My Many Sides” contiene quel genere di canzoni – appartenenti alla tradizione a stelle e strisce – che aspirano ad entrarti dentro, e che canti in auto con espressione malinconica e sofferta, piuttosto che abbandonarti ai suoi timidi ritornelli. 

Non sono brani da sottovalutare, in ogni caso, perché dotati di un groove elegante ed al tempo stesso ferroso, figli di un cammino artistico importante e collocati volutamente fuori dal (nostro) tempo, pur di non suonare derivativi.

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martedì 25 agosto 2020

Recensione DUKES OF THE ORIENT - FREAKSHOW

Dukes Of The Orient
Recensione: Freakshow

Il progetto Dukes Of The Orient nasce dalla collaborazione tra il vocalist britannico John Payne (ex-ASIA, GPS) ed il polistrumentista statunitense Erik Norlander (Last in Line, Lana Lane, Rocket Scientists) e costituisce una ideale continuazione dell’esperienza che i due artisti hanno avviato negli Asia Featuring John Payne, costola degli ASIA nata in seguito alla decisione del loro tastierista Geoff Downes di riformare la line-up originale. 

Abbandonato ogni esplicito riferimento agli ASIA come segno di rispetto in seguito alla scomparsa del cantante John Wetton, Payne e Norlander hanno dato un nuovo nome alla loro formazione e contemporaneamente tracciato la via di un AOR di respiro internazionale, reso ancora più originale da una spruzzata di Prog atlantico. 

Nonostante una intro che difficilmente si potrebbe definire scoppiettante, “Freakshow” non impiega molto a scoprire le sue carte: il disco nato sulle due sponde dell’oceano è una collezione di strutture mature e flessibili, sulle quali viene naturale innestare chorus tranquilli, interventi di tastiera a là Marillion, qualche nota di sassofono ed alcuni timidi accenni di chitarra rock.

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martedì 11 agosto 2020

Recensione BLACK ROSE MAZE - BLACK ROSE MAZE

Black Rose Maze
Recensione: Black Rose Maze

Frontiers Music ha in questi anni contribuito a ridefinire la missione di una “casa discografica”: partendo dal tradizionale business della pubblicazione/distribuzione di nuovi lavori, l’etichetta con sede a Napoli è infatti diventata – complice l’indiscussa credibilità costruita negli anni – un crocevia di contaminazioni e collaborazioni, molte delle quali promosse attivamente dalla label stessa. 

In questo modo le opportunità per i musicisti coinvolti nei suoi progetti si sono moltiplicate, creando nuove possibilità espressive (ed occasioni di lavoro) ed offrendo visibilità ad una girandola di talenti in grado di supportarsi l’uno con l’altro. Tra i maggiori beneficiari di questo meccanismo, che per impulso produttivo potremmo avvicinare alle dinamiche autarchiche e circolari di Netflix, vi è la categoria dei cantanti: professionisti di riconosciuto mestiere e/o esperienza che, in alcuni casi, non hanno legato le proprie fortune al sistema socialmente complesso della band, e che Frontiers è in grado di abilitare costruendogli attorno team di professionisti ad hoc. 

La canadese Rosa Laricchiuta rientra a pieno titolo nella categoria: originaria di Montreal, Rosa è stata cantante, compositrice, performer, concorrente della locale edizione di “The Voice” ed autrice di due album prima di approdare alla corte dell’etichetta italiana.

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lunedì 10 agosto 2020

Recensione LIONVILLE - MAGIC IS ALIVE

Lionville
Recensione: Magic Is Alive

Formati a Genova dieci anni orsono dai fratelli Stefano ed Alessandro Lionetti, i Lionville giungono con “Magic Is Alive” alla pubblicazione del quarto album (il secondo per Frontiers), forti dei consensi raccolti dalle uscite precedenti e di un cantante – lo svedese Lars Säfsund (Work Of Art, Enbound) – in grado di proiettare immediatamente la band in un contesto ancora più internazionale. 

La via italo-svedese al rock melodico tracciata dai Lionville è dolce e sinuosa, corale e matura, solida e ragionevolmente prevedibile come gli amanti di queste sonorità chiedono. 

Grazie ad alcuni arrangiamenti che rifuggono le soluzioni troppo semplici, “Magic Is Alive” è sì ortodosso in tutti i suoi aspetti AOR – dai ritornelli ai suoni – ma mai banale: ogni brano presenta infatti una piccola virata inaspettata, un ricamo complesso oppure un’improvvisa accelerazione che lo rende se non unico, almeno in grado di comunicare una voglia di farcela superiore alla media.

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martedì 4 agosto 2020

Sostituzione lente HOP-14XX su XBOX 360 Fat

Non ho conoscenze tecniche e questo non vuole in alcun modo essere un tutorial, ma solo una serie di appunti che mi hanno aiutato a svolgere l'operazione restituendo una nuova vita al lettore Benq della mia Xbox 360.
  • Problema della mancata lettura del disco, una volta inserito nel lettore, dovuto all'usura della lente (inutili i tentativi di pulizia della stessa o di taratura del diodo come suggerito sul forum di consoleopen)
  • Acquisto di 10 Replacement Parts HOP-14XX Lasers Lens for XBOXs 360s LITE-ON DG-16D2S Disk Drive su AliExpress al prezzo di €01.74/cad, spedizione compresa

Apertura meccanica del carrello mediante comando posto sul lato (non in foto)
  • Apertura della console e semplice estrazione del lettore, scollegando due connettori  (uno bianco, l'altro nero) posti nella parte posteriore dello stesso
  • Apertura del lettore svitando le 4 viti poste alla base: per la maggior parte delle operazioni saranno sufficienti due normali cacciaviti a croce, uno più grande ed un secondo di dimensioni più piccole per le viti interne
  • Espulsione meccanica del carrello, premendo con il cacciavite un pulsante a lunga corsa posto sul lato dell'apparecchio
Il distacco del circuito stampato posto alla base non è necessario
  • Rimozione di almeno due viti per permettere la rimozione del vecchio gruppo ottico dalle due guide cilindriche, previo scollegamento della fascetta arancione per il trasferimento dei dati
  • Rimozione dal vecchio gruppo ottico del raccordo - in plastica bianca - tra la lente e l'ingranaggio motorizzato di movimento posto alla sua sinistra
  • Scioglimento/rimozione della saldatura antistatica generalmente posta sulla nuova lente
  • Verifica preventiva - mediante tester con resistenza a 20k Ohm - della corretta resistenza del diodo per la lettura dei giochi, come suggerito sul forum di consoleopen. Il valore ideale dovrebbe essere compreso tra 3.3 K Ohm e 4.2 K Ohm.
Vista da sotto dell'alloggiamento su guide della lente
  • Inserimento del nuovo gruppo di lettura sulle due guide cilindriche, avvitamento delle viti laterali di fissaggio delle guide stesse e collegamento della fascetta arancione per il trasferimento-dati
  • Avvitamento del gruppo di raccordo - in plastica bianca - tra il blocco di lettura e l'ingranaggio filettato posto alla sua sinistra
  • Quando si monta il gruppo di raccordo, realizzato in plastica relativamente morbida, è importante verificare il corretto allineamento dei suoi due piccoli morsetti con la  filettatura della guida motorizzata che ne regola lo spostamento
Dettaglio della lente, prima dell'espulsione meccanica del carrello
  • Montaggio del lettore con almeno due viti in diagonale per la prova su console
  • La sostituzione, una volta aperta la console ed estratto il lettore, è semplice ed a prova di errore: è consigliabile applicare molta cura nel momento di rimozione del vecchio gruppo ottico dalle due guide di scorrimento, in quanto applicando una forza eccessive sulle stesse si potrebbero compromettere i sottili elementi metallici che ne assicurano la stabilità ed il corretto parallelismo
  • Se al termine dell'operazione si dovessero ancora riscontrare problemi di lettura, pur avendo seguito i singoli passaggi ed avendo avuto cura di ricollegare i tre connettori (due esterni al lettore ed uno interno, vedi foto sopra), è possibile che il nuovo gruppo ottico presenti dei problemi e debba essere a sua volta sostituito. Si tratta infatti spesso di componenti usati o di bassa qualità, inutilizzati da anni e conservati in condizioni che non conosciamo, non testati ed il cui funzionamento non può essere garantito. Per questo motivo è consigliabile, anche a fronte del prezzo irrisorio, acquistare sempre un piccolo stock di lenti, in modo da poter sperimentare con più unita e diminuire il rischio di insuccesso.
In caso di esito positivo dell'operazione, con l'immediato riconoscimento di un gioco inserito nel lettore, è consigliabile effettuare una prova di installazione del gioco su hard disk: se tale operazione avviene in tempi ragionevolmente brevi - e l'avanzamento della barra di scorrimento non presenta periodiche incertezze - significa che il laser funziona bene e dovrebbe garantire un buon numero di ore di gioco in futuro. La mia prima prova è stata effettuata con il gioco Duke Nukem Forever (Take-Two Interactive, 2011)

Approfittando del funzionamento della nuova lente, può essere consigliabile ricorrere all'installazione dei giochi da DVD a hard disk, se si dispone di spazio disponibile: benchè anche essi soggetti ad usura, il loro funzionamento è infatti generalmente più affidabile e le prestazioni dei giochi - qui trovate la mia collezione - saranno più brillanti (in termini di minori tempi di caricamento e maggiore velocità di accesso ai dati).

Recensione ARCTIC RAIN - THE ONE


Arctic Rain
Recensione: The One




C’è sempre una certa curiosità nell’apprestarsi ad ascoltare una nuova uscita di rock scandinavo: il nostro cervello ragiona per schemi mentali e, sempre attirato dalla possibilità di risparmiare preziose energie affidandosi ai ricordi, l’accostamento di queste latitudini a canzoni patinate ed eleganti ci coccola, culla e rassicura. 

Se gli Arctic Rain siano davvero una rock sensation è difficile dirlo, il pedigree è tutto sommato scarno e lo stile certamente derivativo (Whitesnake, Mr Big, Foreigner, Talisman, Def Leppard, TOTO, Treat, Dokken, White Lion e Journey sono i tanti nomi citati dalla band, giusto per darci un’idea), e se nell’idea di “sensazione” infiliamo anche la speranza di un timido sussulto, beh, di questo su “The One” non c’è traccia. 

Pomposo e scorrevole, levigato e brillante, il disco di debutto del quintetto nordico ha però il pregio di copiare con gusto, affidandosi ora a ritmiche incalzanti (“Give Me All Of Your Love” ed ancora più “Breakout”) ed ora alla carica inesauribile del suo singer Tobias Jonsson.


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Ascoltato con
Cuffie Superlux HD-668B
DAC LH Labs Geek Pulse (ESS9018K2M Core)
Alimentatore LH Labs Linear Power Supply
Filtro Audioquest Jitterbug
Software Foobar2000 ver. 1.3.16 (WIN10 Pro / 64bit)

giovedì 30 luglio 2020

Recensione PALACE - REJECT THE SYSTEM


Palace
Recensione: Reject The System



Giunti all’ottava tappa del loro cammino discografico, i tedeschi Palace vengono dalla città di Spira e si propongono di perpetuare i fasti del teutonic heavy metal attraverso dieci nuove canzoni che essi stessi definiscono le loro più pesanti e varie di sempre. “Reject The System“, nonostante il titolo bellicoso, è in realtà l’album perfetto per chi cerca quarantacinque minuti di metallo classico, quadrato, ritmicamente vario ma mai particolarmente ispirato dal punto di vista delle melodie. 

Se esistesse un metal da ascensore, insomma, non sarebbe troppo diverso da brani come “Final Call Of Destruction” e “Wings Of Storm”, dignitose successioni di stereotipi che si affidano alla riproposizione dei loro ritornelli (l’incidere militaresco di “Legion Of Resistence” non può competere con il racconto crudo di “Burner” dei Motorhead) piuttosto che all’efficacia di ciascuno di essi. 

A differenza di un prodotto classico ma di nerbo, come può essere l’ultimo degli Anvil, quello dei Palace è un heavy sommesso, una definizione che lo rende a suo modo originale: nonostante gli stereotipi di genere siano tutti ugualmente rispettati, dalle ritmiche agli assoli, dai cori alle tematiche, il suono e l’impressione che ne risulta sono entrambi decisamente understated.

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mercoledì 22 luglio 2020

Recensione TOKYO MOTOR FIST - LIONS


Tokyo Motor Fist
Recensione: Lions



Artisticamente “figli” di Danger Danger e Trixter, band di provenienza dei due musicisti a capo del progetto, i Tokyo Motor Fist rappresentano un sodalizio artistico che, ancor prima di cominciare a mettere in fila le note, corona un’amicizia lunga una vita: seppure impegnati in carriere diverse, Ted Poley (voce) e Steve Brown (chitarra, cori e tastiere) hanno sempre accarezzato il sogno di produrre musica insieme, e “Lions” rappresenta il secondo passaggio di un percorso che a questo sogno ha saputo – fin dal debutto del 2017 – dare ammirabile concretezza. 

Nei Tokyo Motor Fist ci sono la sofisticazione dei Def Leppard, le cotonature degli ottanta americani, i cori dolci e le malinconie credibili, a formare un quadro che restituisce una curiosa solidità al concetto di “melodico”. 

L’approccio bilanciato dell’album consente infatti alle sue sonorità rotonde di mantenere una venatura piacevolmente grezza, vuoi per l’interpretazione appassionata di Poley vuoi per arrangiamenti squadrati da assimilare al primo ascolto.

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martedì 21 luglio 2020

Recensione ANNO MUNDI - LAND OF LEGENDS


Anno Mundi
Recensione: Land Of Legends



Risultanti dall’ibridazione di musicisti dal background hard rock con altri dalle esperienze più spiccatamente progressive, con “Land Of Legends” gli Anno Mundi propongono una eclettica rivisitazione, dal sapore internazionale, del prog italiano della fine degli anni settanta, quello stesso filone che avrebbe ispirato anche tanto pre-metal fuori dai confini nazionali. 

Nonostante l’idioma scelto per il cantato, c’è dunque tanta Italia in questo retroprog: la pronuncia di Federico Giuntoli fa poco per nascondere le nostre le origini, il senso di una teatralità languida ed elegante è tipico del nostro teatro a collo alto e – ultimi ma non ultimi – i brani in scaletta raccontano di un approccio alla composizione del tutto libero da frette e condizionamenti moderni. Non è solo una questione di lunghezze: certamente cinquanta minuti di esecuzione spalmati su sole cinque canzoni costituiscono una dichiarazione abbastanza chiara, ma è anche il gusto per la singola nota ad approfittare con intelligenza di un fattore, quello del tempo, che questo prog romano è abile nel riscoprire. 

L’approccio è ancora più fisico se si considerano la credibilità dei suoni ed il chiaro compiacimento per la stessa, il senso di novità – storicamente corretto – riservato agli interventi di tastiera, l’abilità nel cambiare strumentalmente registro (“Hyperway To Knowhere”) e disorientare, pur senza rendere l’ascolto frustrante: caratteristiche che tendono a ripetersi diventando un marchio di fabbrica ed un tratto distintivo in grado di tenere i tanti moti del disco sotto un unico cappello di morbido velluto a coste.

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venerdì 10 luglio 2020

Recensione BLOODY HEELS - IGNITE THE SKY


Bloody Heels
Recensione: Ignite The Sky



Ritmata, incalzante, corale: potremmo descriverla così la proposta dei lettoni Bloody Heels, il cui primo disco stampato da Frontiers Records – successore dell’EP Summer Nights (2014) e dell’album di debutto Through Mystery (2017) – corona un cammino relativamente lungo ed articolato che ha mosso i suoi primi passi nella capitale Riga. 

Fatto di continue pause e ripartenze, “Ignite The Sky” sembra davvero possedere il potere di accendere il cielo, tanto i suoi frequenti stacchi convogliano e distribuiscono energia scandita con precisione, cantata con vigore da Vicky White ed impreziosita da assoli (anche) tecnici che danno alla proposta dei quattro un piacevole tocco old style

E così succede di scoprire un hard rock improprio, nel quale elementi classici sono accostati in modi originali, fatto di elementi chiaramente distinti ed in un certo senso decostruito, moderno nella suo disinteresse verso una fluidità facile, autenticamente baltico in una passione ricercata attraverso matematica ed accostamenti meccanici, piuttosto che melodie struggenti.

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martedì 16 giugno 2020

Recensione VEGA - GRIT YOUR TEETH


Vega
Recensione: Grit Your Teeth



Una cosa è certa: i Vega sanno fare quell’hard rock all’inglese, melodico e sporco allo stesso tempo, che negli anni ottanta/novanta ha introdotto molti di noi alle sonorità più croccanti e consistenti. Se in quei rigogliosi anni avevamo – fra gli altri – Little Angels (1984), Zodiac Mindwarp (1985), Gun (1987), e Wildhearts (1989, temo che nessuno ricorderà invece le meteore Goat di “Everybody Wants To Be There” che potevi acquistare alla Tower Records con la formula soddisfatti e rimborsati, oppure gli Scat Opera di “About Time”), oggi a tenere verde quella memoria anglosassone ci sono ad esempio C.O.P. Uk (2005, ex Crimes Of Passion), i nord-irlandesi Stormzone (2004) e – per l’appunto – gli autori di “Grit Your Teeth”, sesto album dalla fondazione datata 2008. 

I tratti che fanno di questo lavoro un prodotto squisitamente “UK” sono anzitutto l’appeal radiofonico e la voglia di puntare in alto: il disco suona esplosivo e larger than life (“Perfection”), riffato e corale senza mai un’esitazione, ispirandosi ad un formato semplice ma che in tempi un po’ fiacchi come quelli attuali appare quasi rivoluzionario, come se gli entusiasmi di un tempo potessero rivivere grazie alla formula magica infusa dall’energico frontman Nick Workman e dai suoi cinque compagni.

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sabato 13 giugno 2020

Recensione PARALYDIUM - WORLDS BEYOND


Paralydium

Recensione: Worlds Beyond




“Certain interplay”. “Integrate all the elements”. “Put the pieces together”. In mezzo a tante espressioni altisonanti con le quali gruppi ed etichette introducono il nuovo imperdibile album, la scelta degli svedesi Paralydium di presentare il proprio lavoro come, prima di ogni altra cosa, la composta evoluzione di una intuizione, mi ha affascinato per il suo carattere squisitamente pratico e terreno. 

Questi cinque avevano sostanzialmente un problema: quello di combinare in una forma sostenibile e d’impatto una collezione di riff, groove e passaggi più meditativi elaborati a partire dal 2015, anno nel quale pubblicarono il primo EP. E quella della band fondata dal chitarrista John Berg un’opera compiuta e potente, sinfonica e barocca, lo è diventata davvero: fin dal prime battute lo stile asciutto del cantante Mikael Sehlin ben si sposa con costruzioni ritmiche complesse, impreziosite da piccoli passaggi strumentali e sostenute da ritornelli fieri della semplicità con la quale risolvono tutto ciò che li ha preceduti. 

Il paragone più azzeccato, pur potendosi citare a pieno diritto Symphony X, Pagan’s Mind, Seventh Wonder e Dream Theater, è quello con i Kamelot di Poetry For The Poisoned (2010). Il genere proposto è infatti quello di un progressive tecnico e cinematografico, che sa alternare con facilità tinte più oscure con aperture facili all’orecchio, forme sinuose, albe soleggiate (“Awakening”) e sviluppi melodici propri di generi più rilassati.

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