sabato 31 agosto 2013

Recensione TURISAS - TURISAS2013


Avevo già sentito parlare dei Turisas, finlandesi di Hämeenlinna (città che ha dato i natali al compositore Jean Sibelius), senza che però mi fossi guadagnato l’opportunità di ascoltare qualcosa della loro produzione discografica. Di quelle candide ammissioni che puoi fare se scrivi su un umile MicroBlog come questo, insomma, perchè le proposte sono tante ed il tempo che si vorrebbe dedicare a colmare le proprie lacune musicali, e scriverne per raccontare & condividere l'effetto che fa, non è mai abbastanza. Fondati nel 1997 da Mathias Nygård e Jussi Wickström, rispettivamente voce e chitarra nella formazione attuale, i Turisas prendono il nome dall'antico dio finnico della guerra, tale Iku-Turso. Come la maggior parte degli altri esseri mitici finlandesi, Iku-Turso resta poco conosciuto, aggiunge con un filo di malinconia Wikipedia. Il genere proposto si configura come un particolare folk-metal - rinominato da parte della stampa battle metal, dal titolo dell’album d’esordio del 2004 - con elementi power e sinfonici, prog punk e persino death, al quale si aggiungono assoli di violino elettrico che ne caratterizzano ulteriormente il suono. Anno dopo anno, la fortuna della band viene consolidata non solo da una buona riuscita commerciale, ma anche da un’incessante attività live, che ha saputo tradurre sul palco la ricchezza espressiva di questo stile sfaccettato: Europa, Stati Uniti, Russia ed America Latina hanno salutato concerti che la band stessa definisce energici, innovativi ed eccitanti, mantenendo un legame fisico con i fan che Turisas2013 intende oggi ulteriormente rinsaldare. Quarto episodio della saga scandinava (giacchè apprendo or ora che nei paesi di lingua inglese la Scandinavia comprende Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda, Danimarca e persino Groenlandia, mentre da un punto di vista strettamente geografico il termine descriverebbe solamente la regione culturale comprendente Norvegia, Svezia e Danimarca), il cuore di Turisas2013 è stato registrato all’interno di una casa sperduta nei dintorni di Helsinki, mentre batteria ed elementi orchestrali sono stati prodotti in due differenti studi della capitale finlandese. Le prime note di For Your Own Goods fondono i richiami neoclassici di un’algida partitura per voce e pianoforte con un chorus prettamente rock, che detta il tempo per lo sviluppo ulteriore del brano. Archi in sottofondo, incursioni acute di pianoforte, chitarre ritmiche a supporto e voce generalmente pulita (se si esclude la tentazione growl dei secondi finali) sono ingranaggi di uno sviluppo organico, di una melodia colta ed accessibile da raffinato musical-rock (We Ride Together), nel quale gli elementi folk di Run Bhang-Eater, Run! sembrano passare decisamente in secondo piano, se non addirittura farsi vittime fuori contesto nel momento in cui si abbruttiscono - ingenuamente, aggiungerei - con gli umori di fanciulle ansimanti, dal contributo decisamente cheap. Cura ed impatto avvicinano i momenti adulti di Turisas2013 ad un rock di magnifica portata teatrale, con i cori di Ten More Miles a staccare potenti su una base di incorruttibile doppia cassa. A differenza di certo soundtrack-metal, di ottima fattura anche italiana, i Turisas offrono un quadro più variegato e ritmicamente complesso, un'espressione tridimensionale capace di volare pindaricamente tra immagini ora intimissime (lo sciabordio delle onde e poi le delicate note di oboe di Piece By Piece, ad esempio) ora di imponenza solenne e ricercata. 


Per varietà di soluzioni e cura degli arrangiamenti Turisas2013 è un prodotto solido e credibile, dall’ossatura pesante e contadina, che ne allontana la vivacità creativa dal sospetto della soluzione ad effetto: il disco riesce infatti a rimanere down-to-earth, di consistenza palpabile, anche nel momento di cui subentrano gli elementi orchestrali/sinfonici: bastano un ruvido screaming ed un’accelerazione improvvisa (Into The Free), o piuttosto il dark-gothic intestino di Greek Fire (impreziosito da uno straniante coro che parrebbe uscito dalla penna di John Lennon) e lo spensierato pirate-metal di No Good Story Ever Starts With Drinking Tea, per evitare che il progetto assuma una levigatezza eccessiva, un atteggiamento compiaciuto e perfettino, con il pericolo di disperderne l’impatto. Complice un suono preciso ma non artefatto, l’album mantiene un ritmo consistente e continuamente contaminato, una confusione organica e meccanica da steampunk-swing che ne grazia l’incedere e ne riverisce le aperture sinfoniche, come alla disperata - ed alcuni sosterranno inconcludente - ricerca della propria vera natura. Reduce da un ascolto che sa affascinare, stancare e confondere allo stesso tempo, l'unica certezza in capo all’ascoltatore è che la definizione di folk-metal cominci a diventare decisamente stretta alla band di Nygård e Wickström, per non parlare di una sbrigativa costrizione battle-metal che non sembra più in grado di definire la profondità di immagine ambiziosamente ricercata da una parte almeno della scaletta. A tratti stilisticamente indecifrabili come solo certe grandi band sanno esserlo, a tratti nostalgici nei confronti di un death melodico che pare ancora sotto-sotto tentarli (The Days Passed), i Turisas scelgono di fare la propria corsa, testardi ed orgogliosi come tutti i popoli isolani, desiderosi di dimostrare la fallacia dei termini con i quali se ne vorrebbe incastrare la musica. Le nove canzoni, che verranno distribuite in tutto il mondo, descrivono un’instancabile voglia di avventura e tutto il fastidio nei confronti delle definizioni, piuttosto che rappresentare un approdo definitivo, la coraggiosa progressione di un cammino artistico (alla Katatonia) o una matura e definitiva consapevolezza circa la natura delle proprie aspirazioni: più convincente proprio nel momento in cui sceglie di crescere abbandonando gli elementi folkloristici a favore di uno stile più vocale e melodico, il disco si limita altrove ad offrire energie incanalate e metal diversamente declinato, assumendo le forme di un indeciso Giano bifronte ora di rilevante interesse prospettico, ora di difficile ed insipida lettura.

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Folk/Power Metal, 2013

Century Media Records

Tracklist:
  1. For Your Own Goods
  2. Ten More Miles
  3. Piece By Piece
  4. Into The Free
  5. Run Bhang-Eater, Run!
  6. Greek Fire
  7. The Days Passed
  8. No Good Story Ever Starts With Drinking Tea
  9. We Ride Together
Line-up:

Mathias "Warlord" Nygård (Voce)
Jussi Wickström (Chitarra)
Olli Vänskä (Violino)
Robert Engstrand (Tastiere)
Jesper Anastasiadis (Basso)
Jaakko Jakku (Batteria)

mercoledì 28 agosto 2013

Recensione WONKIE GUY - GAME BOY ADVANCE SP


Laureato nel 2003 in scienze informatiche, il canadese Sein Reid si è distinto per una carriera che l'ha portato a sviluppare - come racconta sul suo interessante blog - giochi per conto di Orbital Media (Scurge: Hive, Pirate Battle), Magmic Games (Ka-Glom!, Eagle Eye, Poker Blast, Cursed, Miner 2049er: Gold Rush, Phase 10, Guitar Hero Mobile), Electronic Arts Mobile (Clue), Oyaji Games (Mecho Wars) e Nine Tales Digital. Wonkie Guy fu creato dieci anni fa come parte della tesi di laurea discussa presso la Carleton University, e godette di una buona popolarità tra gli appassionati di software homebrew per aver conquistato il primo posto (tra cinquantacinque partecipanti) nella GBAX 2003 Coding Competition, realizzata in collaborazione con i siti GBAX, GBAEmu e GP32Emu. 

La programmazione amatoriale della piccola console Nintendo ha appassionato tantissimi fan in tutto il mondo e su siti come GBADev.org è ancora possibile scaricare gratuitamente titoli ufficiosi come XMen V Street Fighter e Half-Life nonchè vari strumenti di sviluppo che permettono a tanti di cimentarsi nell'arte della programmazione. Al di là degli effettivi risultati conseguiti da ciascuno, siti come questo rimangono una testimonianza della dignità con la quale invecchia una console che, a distanza di tanti anni, continua a riscuotere interesse ed apprezzamento. Il progetto presentato dal talentuoso Sean è una sorta di platform-game / demo, che dimostra grande passione per i videogiochi nonchè un'ottima conoscenza della materia informatica: sviluppato in due mondi, per un totale di tredici livelli, Wonkie Guy fonda la propria giocabilità sulla possibilità, per il suo protagonista, di staccare la testa dal proprio corpo per un periodo limitato di tempo, lanciandola in aria contro i nemici al fine di utilizzarla come arma. L'espediente ricorda quello di Super Mario World 2: Yoshi's Island (Nintendo, 1995) nel quale, benchè il piccolo Mario non costituisse un vero e proprio strumento di offesa, era comunque possibile separarlo da Yoshi a patto di ricongiungere entrambi i personaggi entro un tempo limitato e scandito da un insopportabile pianto!

Per quanto non manchino altre citazioni dei titoli Nintendo, come ad esempio la possibilità di raccogliere cento monete per guadagnare una vita extra, Wonkie Guy si presenta come un titolo tecnicamente curato ma dotato, longevità a parte, di una cura discontinua. Nonostante le ottime musiche e la piacevole grafica, le situazioni di gioco tendono a ripetersi, così come i nemici (piccoli esserini terrestri, alcuni dei quali dotati di cannoni, piante e fastidiosissime api) da affrontare durante il percorso che ci conduce all'uscita di ogni livello: il re-spawning di gran parte di essi rende il gameplay abbastanza meccanico e talvolta frustrante, a causa di un'azione a tratti frenetica che male si sposa con l'assenza di un tempo limite ed il tono gioioso e graficamente rilassato del gioco. In totale assenza di checkpoint, alcune morti appaiono gratuite (come quelle del livello a caduta libera, caratterizzato da uno scorrimento verticale obbligato), mentre altre sezioni si superano con un misto di fortuna e casualità, senza conquistare la gratificante impressione di aver davvero capito come superare un passaggio particolarmente ostico. 

Il "lancio della testa" ed il suo successivo recupero creano dinamiche potenzialmente interessanti e complesse, grazie a punti che è possibile superare solamente separando le due parti: a causa dei fastidiosi nemici (ad ogni contatto perderemo un cuore ed esauriti cinque cuori ci verrà sottratta una vita) e di alcune situazioni di non chiara lettura non è però mai possibile gustare appieno il meccanismo, calibrando, pianificando ed eseguendo una strategia consapevole. Al contrario, ad ogni buon proposito va fatta seguire una pratica spesso improvvisata, frustrante quando finita in malo modo e mai completamente appagante quando permette invece di avanzare al livello successivo. Il gioco permette di riprendere la partita unicamente dall'ultimo livello visitato, anche in seguito allo spegnimento della console, quasi a voler impedire un approfondimento della sua giocabilità da parte del giocatore: così facendo Sean ci stimola ad una progressione continua che tralasci l'attenzione al dettaglio, strattonandoci ad avanzare piuttosto che conducendoci per mano come solo un buon platform Nintendo saprebbe fare. 

Da un punto di vista strettamente tecnico vanno comunque elogiati la bontà delle animazioni, il preciso controllo del personaggio, l'equilibrio degli accostamenti cromatici e, come già anticipato, le ottime musiche: tra i principali difetti citerei invece la casualità di alcune situazioni che generano frustrazione perchè non permettono a Wonkie Guy di ricongiungersi alla propria testa (costringendolo ad una morte lenta ed ineluttabile) e l'impossibilità di rigiocare a piacimento i livelli già completati, come sopra evidenziato, per padroneggiarli al meglio. Se considerato - come in effetti è - al pari di un demo gratuito, realizzato da un programmatore giovane e relativamente inesperto, Wonkie Guy si rivela comunque una piccola chicca, dalla presentazione ordinata seppur generica: adatto ad una fruizione veloce (il gioco si finisce in un giorno, nell'arco di un paio di sessioni) che sveli le chiare ambizioni lavorative del suo artefice, il titolo vincitore del GBAX2003 si differenzia dai migliori giochi commerciali per una perdonabile mancanza di finitura, di spessore narrativo e di personalità, che in qualche occasione allontana il protagonista e la sua testa dai nostri affetti per lasciarli in balia degli eventi sul buio schermo del GBA.

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domenica 25 agosto 2013

Recensione DIABULA RASA - ARS MEDIOHEAVY


Vengono dalla mia Romagna, i Diabula Rasa, ed è bastato un solo ascolto al loro nuovo album Ars Medioheavy (titolo azzeccato e programmatico) per invogliarmi a scrivere questa recensione. Attivi da tredici anni, da sette nella formazione attuale, la band si presenta sulla pagina ufficiale Facebook come un collettivo dedito alla ricerca ed alla sperimentazione sulla musica medioevale, quasi a voler sottolineare come vi sia una sorta di missione culturale alla base del percorso intrapreso dal leader Luca “Diabula” Veroli e dai suoi compagni di viaggio. Lo stesso Veroli, vero liutaio, costruisce personalmente la strumentazione utilizzata in studio come durante i suggestivi concerti, ingegnandosi per “elettrificare” gli antichi strumenti medievali e trasformando ad arte il look di costumi, chitarre, percussioni e “qualsiasi cosa gli capiti a tiro”, compreso un organo scenografico dotato di suoni campionati che lo fanno cantare con voce antica. Diabula Rasa è un’idea che nasce da Luca e Daniela Taglioni, entrambi stimati cultori di storia e cultura medievale, nonchè esperti di musica antica accomunati dalla volontà di unire le sonorità del 1200-1300 con la grammatica del moderno metal che conosciamo: studiando e reinterpretando con passione le fonti antiche la loro band intende ampliare il pubblico interessato a questo particolare stile, che in Italia sta conoscendo un discreto successo grazie ai lavori di Folkstone, Elvenking e Kalevala, solo per citarne alcuni. Ars Medioheavy, uscito a fine 2012 sotto l’etichetta parmigiana Moonlight Records, rappresenta la terza tappa discografica per i lughesi, seguito dello strumentale Techo Gothica del 2005, che non presentava elementi metal, e di Diabula Rasa del 2010, che introduceva per la prima volta l’elemento cantato e quello metallaro, rielaborando con l’occasione il materiale presentato cinque anni prima. Studio, ricerca e sperimentazione vengono quindi messi al servizio di una precisa e filologica opera di ricostruzione, che si propone di infondere un respiro contemporaneo ad una musica pensata per essere eseguita da strumenti totalmente differenti in un periodo che si può far risalire al 1100 circa: si trattava di una produzione pensata inizialmente su testi latini e successivamente in lingua volgare, di frequente provenienza ecclesiastica, proprio perché la formazione culturale avveniva esclusivamente in ambito monastico/ecclesiastico fino alla produzione dell’Ars Antiqua (o Ars Vetus). Per una descrizione storica più esaustiva ed una precisa contestualizzazione di questo ascolto vi rimando allora senza indugi all’articolo su Wikipedia. L’atmosferica opener Ghirondo riesce a costruire un brano ritmato e coinvolgente attorno ad una manciata di note di basso, prima alternando e poi fondendo un impalpabile coro femminile con chitarre potenti (che assalgono da entrambi i lati senza soluzione di continuità) e note di cornamusa, a rincorrersi frenetiche: nel riuscito crescendo trovano posto tappeti di tastiere e stacchi di batteria, disciplinati secondo un’ordinata alternanza che davvero identifica nello studio e nell’aderenza al modello originale la vera differenza dei Diabula Rasa


Canzone dopo canzone, tra testi latini, altri della tradizione bulgara, altri ancora in francese antico ed alto tedesco, si rimane conquistati dal fatto che la componente storica/folk ha un evidente sopravvento sull'elemento metal, al quale - come correttamente scritto nella biografia della band - viene riconosciuto il solo ruolo di medium per diffondere l'interesse verso questo tipo di musica. Grazie alla perfetta integrazione degli elementi e ad una produzione fantastica, finalmente di livello internazionale, Ars Medioheavy straripa di vita ed energia, regalando un viaggio nel tempo che sappiamo non solo esegeticamente corretto, ma anche coinvolgente e sempre ritmato. Le voci di Daniela e Samantha interpretano ogni passaggio con spirito e passione, i loro apporti sempre in primo piano, definendo gran parte della musica dei Diabula Rasa: alieno da contaminazioni death e controcanti growl, ed allo stesso tempo avaro di contrappesi di maschile gravità (Congaudentes), il disco propende per un approccio ritmicamente solido (ottimo per interpretazione e sensibilità Moreno Boscherini alla batteria) ma di vocale e folletta levità. Se infatti non mancano passaggi più pieni e sinfonici (Cataclism), sui quali il sestetto romagnolo giustamente indugia per dare spazio alle diverse voci in suo possesso, il cantato sottile riporta puntualmente ad atmosfere festose e sfrenate, paesane piuttosto che epiche, nelle quali la ripetizione di una stessa frase (ho scritto di mesoloop, macroloop e microloop qui) crea un vortice ossessivo ed ancestrale, di potenza mistica e fervore dilagante. La riproposizione convinta di questi elementi nell'arco dei tre quarti d'ora di esecuzione contraddistingue un progetto mirato e ponderato, alla larga della - pur divertente - accozzaglia folk-metal cresciuta a forza di vodka-thrash, face painting alla Braveheart & gonnellini d'ordinanza. Il rigido schematismo corale di Madre De Deus, la teatralità hard-rock di Maledicantur e gli eleganti intrecci di Astarte sembrano voler indicare un anelito più ambizioso ed un’aspirazione più alta, che possa interessare l’ascoltatore ancor prima che divertirlo, intransigente nella generale inaccessibilità delle sue liriche, fresco nei suoni in levare, esaltante nell’eccellente resa dei suoni elettrici/elettrificati (le chitarre metal paiono prendere un deciso sopravvento nella sola, e trascurabile, In Taberna) e complicato quanto basta negli arrangiamenti per stimolare successivi ascolti. Ars Medioheavy sceglie coraggiosamente la via più difficile, proponendo con meritato successo un approccio crudo al folk-metal che ci fa davvero sentire il profumo della real thing: nel disco non vi è nulla di ammiccante nè commerciale, ritornelli ed assoli ed altro modername cedono a capo chino il passo a cerchie più antiche e sanguigne, ma non per questo meno intrise di un coinvolgimento fisico, irrefrenabile, proibito e primordiale (come il balletto seminudo nella villa di Jackie Treehorn, Il Grande Lebowski, 1998). Così facendo i Diabula Rasa riescono nell'intento di farci percepire, con l'aiutino di una contaminazione metal ed a tratti progressive, tutta la potenza espressiva e la carica d'energia di un'arte affascinante, oscura, senza tempo.

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Folk Metal, 2012

Moonlight Records

Tracklist:
  1. Ghirondo
  2. Tsanich
  3. Cataclism
  4. Congaudentes
  5. Madre Deus
  6. Astarte
  7. In Taberna
  8. Vermell
  9. Maledicantur
  10. Ahi Amours
Line-up:

Luca Veroli (Cornamuse, ghironda, voce, composizione brani e liuteria)
Daniela Taglioni (Canto, organo, cembalo, tastiere, composizione ed elaborazione brani)
Samantha Bevoni (Basso, voce e cori)
Stefano Clo (Chitarre, liuti)
Sonia Nardelli (Chitarre)
Moreno Boscherini (Batteria)

sabato 24 agosto 2013

Pensieri e ricordi a proposito di retrogaming...


"Per me una quattro stagioni!" 

E così, in attesa che mi portino la pizza, dopo un'intera giornata trascorsa a (cercare di) vendere case, affondo sul divano, sperando di non cadere tra le morbide braccia di Morfeo prima che l'omino suoni alla mia porta, e spio la mia Play2, con il pad un po' impolverato che le riposa a fianco.


Mi viene in mente, complice il caldo di questi giorni, quando lavorai un'estate intera come bagnino (sì, proprio io che da buon metallaro finlandese mancato odio il caldo e la spiaggia!) per potermi comprare un Super Nintendo con gioco e 2 pad a 338.ooo lire...


Penso a quando per giocare con il C64 dovevo comprare in edicola Commodore Computer Club, digitare a mano intere pagine di listati, correggere gli immancabili errori di sintassi ed accontentarmi alla fine di giochi in Basic modestissimi che, allo spegnimento del computer, avrei perso per sempre, visto che la sola idea di poter salvare il tutto su cassetta sembrava fantascienza.... 


Penso al Gameboy, quello in bianco e nero, meraviglia tecnologica rispetto all'azione ripetitiva degli Scacciapensieri: penso alla scatola di polistirolo con il bollino della Mattel, alla cuffia rossa ed a quella blu, ai giochi che non capivi cosa c'era sullo schermo, ma in fondo sapevi che 2 pulsanti erano sufficienti a districarsi nella maggior parte delle situazioni... 


Penso al motorino del postino, a come lo avvertivo in lontananza sperando che si fermasse davanti a casa, che suonasse il campanello e mi consegnasse in fretta e furia quella cartuccia ordinata al telefono, dopo settimane di faticosi risparmi, in uno dei negozi pubblicizzati su Game Power, tra una recensione e l'altra del mitico Apecar... 


Penso alla prima Playstation, con questo laser che non si decideva a leggere fluidamente i filmati di intermezzo, e la console che andava e veniva dal fantomatico Centro di Assistenza Europeo in Belgio, come in un moderno viaggio della speranza.... 


Penso a Super Mario 64, a quel senso di estatico smarrimento di fronte ad un mondo tridimensionale cosi complesso, e fantastico. Penso alla prima nuotata nel fossato del castello, al volto di Mario da deformare con lo stick analogico, ai portali nei quali l'idraulico si tuffava per accedere ai vari livelli... 


Penso a quando giocare significava risparmiare per settimane, scegliere con cura, investire senza il conforto di Internet, dosare tempi ed impegno, perchè un gioco doveva durare, e andava amato, e conosciuto, e capito fino in fondo. 


Penso ad oggi, alla mia pizza, ed alla mia Play2 che sul mobile della sala sembra ancora una specie di oggetto misterioso. Tanti giochi, già, ordinatamente allineati sullo scaffale, tanto oggi si comprano da Mediaworld a poco più di 15 euro, e se anche ci si dimentica di provarli almeno una volta, chissenefrega. 


Penso alle console rare, che è diventato così facile trovare su Ebay, penso al mio PC Engine, al 3DO, al Jaguar ed al suo cuginetto Lynx, al CD-i, tutti acquistati nel disperato tentativo di tornare indietro nel tempo, a quando la mamma passava dalla tua camera e quasi ti compativa, vedendoti così entusiasta nel soffiare - senza sputare - sui contatti di una cartuccia, infilarla nella console e premere Start per dare inizio alla festa. 


Mi sento così vecchio, ed ho nostalgia per quei tempi, nei quali mi sentivo più ingenuo, e capace di sognare. Chissà se i ragazzi di oggi provano ancora le stesse emozioni, anche tattili, quando prendono in mano un Blu Ray Disc, o smanettano col Sixaxis o col telecomando Wii, come fosse la cosa più scontata del mondo. Chissà. 


"Terzo piano!". E' arrivata la mia pizza. Probabilmente dopo cena leggerò un fumetto, perchè la gestione dei personaggi di Obscure mi sembra così terribilmente complicata...

(Articolo pubblicato originariamente qui)

venerdì 23 agosto 2013

Recensione KATATONIA - DETHRONED & UNCROWNED


Coerenti, visionari, indipendenti, liberi, eppure empatici e generosi dispensatori di fitte nebbie ed infiniti spazi ghiacciati, all’insegna di un Grigiore di Qualità nel quale nicchie sparse in tutto il mondo vorrebbero, almeno una volta, perdersi. Questo e molto altro sono i Katatonia, gruppo svedese che dagli esordi black/doom metal di Dance Of December Souls (1993) al post-rock più melodico e rarefatto del nuovo millennio, sulfureo e descrittivo, ha saputo rinnovarsi completamente, mescolando le carte ma senza mai tradire la regola di un mood sottile ed ambiguo (“sorrowful metal”), di una malinconia dell’abbandono e della rinuncia (DE-THRONED, UN-CROWNED) raccontata osservando con distacco, ora servendosi di tinte più forti ed ora mediante la suggestione di passaggi di ipnotica poesia. Forti di una coerenza sui generis, che li ha visti raffinare continuamente la proposta, evolutasi verso un suono sempre più progressive pur senza tradire i fan, i Katatonia si ripresentano nel 2013 con questo Dethroned & Uncrowned (46m10s di durata totale), album di undici pezzi e decima fatica discografica ad un anno di distanza dal successo di quel Dead End Kings (48m47s di durata totale) che sancì l’ingresso in pianta stabile di Per Ericksson e Niklas Sandin. Ed è proprio da qui che ripartono gli svedesi, proponendo con l’originalità loro propria non un disco completamente nuovo, ma un album che “esplori gli elementi ambient e progressive dell’acclamato Dead End Kings”. A farne le spese, anticipa Anders, saranno batteria e ritmiche distorte, che dovranno oggi cedere il passo a melodie ed armonie vocali, assurte a vero punto focale di questa nuova release, che nelle intenzioni del chitarrista svedese dovrebbe costituire qualcosa di inedito, pur includendo undici tracce dai titoli immutati. Dethroned & Uncrowned si presta allora ad una doppia chiave di lettura, ad una valutazione che ne contempli le doti in senso assoluto e ad una, non meno importante per chi già conosce la discografia di Renkse e compagni, che invece ponga il disco in prospettiva con l’uscita precedente. Dead End Kings ha rappresentato un viaggio in un’ipotetica Tranquillity Base, trasognato e cantilenante, che per il senso di atmosfera rarefatta e spiazzante solitudine mi ha ricordato quell’Echo Night: Beyond (From Software, 2004) giocato qualche anno fa su Playstation2. Il gioco narrava di fantasmi tormentati ed abbandonati paesaggi lunari, in un futuro non troppo distante che si faceva sempre più inquietante per i fenomeni inspiegabili che vi avvenivano, per la luce pallida della luna che ne rischiarava i silenzi e per la mancanza di peso che, come dentro una figura retorica, aggiungeva in realtà spessore ed atmosfera agli ambienti di gioco.
Sei pronto a farti trasportare nel peggiore dei tuoi incubi? Una stazione spaziale abbandonata... almeno apparentemente.... Un incidente spaziale e nessun cadavere in giro... Impovvise voci nel buio siderale e spettri che girano ignari per la nave... tutto questo è Echo Night Beyond. Traendo spunto, in quanto ad atmosfera, dagli incubi di Silent Hill, starete col fiato sospeso temendo tutto ciò che vi sta intorno. Un esperienza ludica elettrizzante ... fino all'ultimo spasimo...
Tormentato ed effettato, il rock di Dead End Kings sapeva coniugare con successo tempi generalmente rilassati, riff di chitarra semplici, un malinconico tappeto sul quale spiccavano i tintinnanti battiti del ride, arrangiamenti orchestrali e chorus in grado di introdurre un minimo di vivacità ritmica, benchè sempre sull’orlo di essere brutalmente smorzata. Nonostante la cura degli arrangiamenti, il disco suonava come un lavoro di continua sottrazione, quasi a voler riprendere - anche nella forma - quella sostanza katatonica fatta di distacchi e abbandoni, vuoti incolmabili ed affreschi dal fascino scalfito e decadente. Dethroned & Uncrowned sostituisce all’elemento ritmico una componente acustica che ne definisce il carattere e ne giustifica l’esistenza: il cantato di Renkse è più partecipato e sofferto, con le tracce vocali spesso raddoppiate che ben si armonizzano con arpeggi ed accordi di chitarra acustica, scale al pianoforte ed archi a profusione. Va detto, per fugare il sospetto di una banale operazione commerciale, che ogni brano subisce una trasformazione decisa, tanto profonda che la stessa canzone appare diversa pur ascoltandone in rapida successione entrambe le versioni. La release del 2013 fluttua leggera, completamente privata di  quegli elementi nervosi e quelle diagonali ritmiche che contraddistinguono il sound “normale” degli svedesi: le andature, già rilassate, si distendono ulteriormente, pur mantenendo un focus apprezzabile ed accorciando la durata totale della riproduzione. Sotto questo aspetto va rilevato, curiosamente, che la nuova versione nella quale gli undici brani vengono riproposti permette di coglierli in una dimensione definita e forse persino più comprensibile. Laddove in Dead End Kings malinconia e reminiscenze metal creavano un effetto a volte dissonante, che qualche anno fa descrivevamo come originale, Dethroned & Uncrowned propone uno sviluppo armonico e coerente, più facilmente riconducibile alla classica forma-canzone: il remix, se così vogliamo chiamare questa radicale rilettura, scombina le carte per scoprire l’essenza dei brani, esaltandone le melodie appena suggerite, raccordandone con grazia i passaggi, riempiendone i vuoti con piccoli tocchi e delicati riverberi che tra i duri contrasti della versione rock sarebbero invece andati perduti. Se da un lato certi passaggi, ridotti alle semplici sonorità acustiche (non mancano comunque alcuni rarefatti assoli di chitarra elettrica), guadagnano in inquietudine e senso di vuoto, dall’altro la maggior cura riservata all’interpretazione delle melodie vocali crea un contrappeso elegante che bilancia l’anima dell'intero album, donandogli un perfetto equilibrio tra pieno e vuoto, voce e cori, note solitarie e partiture più ricche. 



Il disco non brilla certo per varietà: i suoni tendono infatti a ripetersi e ad un ascolto distratto l’impressione è quella di trovarsi di fronte ad una singola opera in più atti, piuttosto che ad undici tracce dalla personalità tra loro distinta. Probabilmente dal punto di vista della produzione si sarebbe potuto osare qualcosa di più, pur scegliendo di avvalersi di una tavolozza di colori limitata, ma la circostanza che il materiale di partenza sia stato pensato per un’esecuzione di tipo diverso può aver posto dei paletti alle reali possibilità di rielaborazione. Svanito dunque l’effetto novità e la voglia di confrontare ogni singola traccia nelle due versioni, ciò che rimane è un ascolto delicato e piacevole, coerente ed ostinato nelle sue scelte come gli Apocalyptica duri & puri degli esordi. Sembra comunque inutile, persino fuorviante, valutare il disco secondo parametri standard: l’ultimo dei Katatonia sceglie di compiere un percorso originale, astraendosi ed allo stesso tempo sottoponendosi all'immediato confronto, offrendo all’ascoltatore non solo un gioco di rimandi tra le diverse versioni ma anche una chiave di lettura differente, una visione più ampia, uno stimolo a trovare un proprio - anche scomodo - posto tra nuovi arrangiamenti e malinconie nordiche servite in tutte le possibili salse. L’impegno del quale Dethroned & Uncrowned pare intriso, superiore a quello di un ordinario bonus disc, conquista come le musiche che accompagnano i titoli di coda dei film che finiscono male: il protagonista muore, l’ingiustizia prevale (Leon, Luc Besson, 1994) e lo spettatore, solo in tutto il suo ap/pagante sconforto nel buio della sala, sceglie di rimanere seduto, attonito, come ipnotizzato dallo scorrere continuo dei crediti e dalle note (Shape Of My Heart, Sting, 1993) che ne accompagnano la danza, dal basso verso l’alto dello schermo. Note tra le quali egli si illude di cogliere ogni tanto un sussulto, un respiro, un battito abbastanza forte da rievocare in lui una capacità di comprensione ed un sentimento di speranza. Tutt'altro che indispensabile, Dethroned & Uncrowned è neve sporca e giornate sprecate: è un flash mob di sguardi verso l’alto che non hanno età, alla ricerca di conforto nel grigiore di un cielo squarciato da frammenti di melodia torbida e barocca che pure pare rincuorare, nonostante tutto.

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Ambient Rock, 2013

Kscope

Tracklist:
  1. The Parting
  2. The One You Are Looking For Is Not Here
  3. Hypnone
  4. The Racing Heart
  5. Buildings
  6. Leech
  7. Ambitions
  8. Undo You
  9. Lethean
  10. First Prayer
  11. Dead Letters
Line-up:

Jonas Renkse (Voce, Chitarra, Tastiere)
Anders Nyström (Chitarra, Tastiere)
Per Eriksson (Chitarra)
Niklas Sandin (Basso)
Daniel Liljekvist (Batteria)

mercoledì 21 agosto 2013

Recensione telefono ZOPO ZP500: ecco perchè cinese & sconosciuto conviene.


Acquistato a Settembre 2012 sul fido Tinydeal.com, questo ZOPO ZP500 è lo smartphone che mi ha definitivamente convinto della bontà dei cosiddetti cinafonini, telefoni cellulari Made in China (come tutti gli altri, del resto) che, pur senza vantare nomi di marche altisonanti, fanno tranquillamente il loro dovere ad un prezzo molto inferiore. Il servizio di siti come Tinydeal.com è sempre ottimo: semplici da navigare e ricchi di offerte per gli appassionati di gadget elettronici, questi grandi magazzini dell'elettronica low-cost offrono sistemi di pagamento sicuri (tra i quali PayPal), un buon servizio post-vendita (io stesso ho potuto sostituire un tablet non funzionante senza problemi, anche se per comunicare via email con l'assistenza è richiesto l'inglese) e la spedizione compresa nel prezzo, prevista anche per i prodotti di importo più contenuto. 


Dal momento che la curiosità di provare uno di questi telefoni dal prezzo invitante era superiore all'effettiva necessità (all'epoca utilizzavo un Palm Pixi Plus, con grande soddisfazione), mi sono quindi orientato verso un dispositivo di fascia media, che comunque rappresentava quanto di più tecnologico ed evoluto mi fossi mai ritrovato tra le mani. Valutando le proposte dei diversi siti, la mia scelta è ricaduta su una marca sconosciuta ma non troppo: ZOPO Mobile è infatti il nome utilizzato dalla Shenzhen ZOPO Communications Equipment Limited Company, produttore cinese di smartphone nato nel 2012 che dispone di strutture proprie dedicate a ricerca & sviluppo, produzione, marketing ed assistenza. A testimonianza di una certa vivacità tecnologica, il loro ZOPO ZP200 fu il primo terminale cinese a doppia SIM con schermo ad effetto 3D senza occhiali, primato ribadito in occasione della produzione del primo telefono con sistema operativo Linux Sailfish destinato al mercato indiano. Zopo dispone inoltre di uffici in Germania, a Kiel per la precisione, attraverso i quali importa direttamente i terminali nel nostro continente e li vende, per chi fosse particolarmente interessato a questo aspetto, con una garanzia europea. Il telefono che sembrava poter meglio rispondere alle mie esigenze di utente medio era lo Zopo ZP500, conosciuto anche col nome Libero, dotato di queste caratteristiche tecniche:
  • Spessore di 9.9mm, dimensioni 123 x 61.6, peso 116.6g (batteria compresa)
  • Schermo capacitivo multi-touch TFT-LCD da 4.0 pollici
  • Sistema operativo Android 4.0.3
  • Connettività quadriband + 3G per una delle due SIM supportate
  • Supporto GPS ed A-GPS per la navigazione
  • Processore ARM MTK MT6575, 1GHz
  • Processore grafico Imagination PowerVR SGX 531 con supporto di Frame Buffer, VBO, Cube Map, Texture Combiner, Dot3 Combiner, Crossbar Combiner
  • RAM: 512MB - ROM: 4GB
  • Risoluzione dello schermo 960 x 540 pixel
  • Doppia fotocamera, esterna fino a 8.0 Megapixel ed interna da 0.3 Megapixel, con possibilità di registrazione di video a 720P in formato 3GPP
  • WiFi + GPRS + WAP + USB
  • Bluetooth
  • Sensori di orientamento, campo magnetico, prossimità, luce ed accelerometro su tre assi


Dopo quasi un anno di utilizzo, penso di poter esprimere un giudizio ponderato su questo telefono, dal momento che ne sfrutto gran parte delle potenzialità: oltre ai servizi Google integrati (Calendar ed Email, soprattutto), utilizzo quasi quotidianamente il lettore audio, programmi di videoconferenza (Skype, Oovoo), macchina fotografica, spazi di archiviazione online (Drive, Mega, Sky Drive, Dropbox), applicazioni per lo streaming video (Rai, Youtube, TV Dream), oltre che programmi per la messaggistica (WhatsApp), le news (TGCom, Google Currents, Gamespot, IGN, Accuweather, Flightradar24) ed i social network (Facebook): ho inoltre avuto modo di provare la navigazione GPS e l'attivazione dell'hotspot Wi-Fi portatile. In tutti questi casi, posso anticipare che il piccolo ZP500, da me acquistato ad €138.17 e oggi ancora disponibile ad €110.09, si è sempre comportato egregiamente, offrendo buone performance supportate da un'ottima stabilità. Il mio cellulare è di colore bianco, pesa poco più di un etto ed è protetto sul lato posteriore da una cover rigida trasparente, che si trova online a pochi euro e si è dimostrata molto efficace in caso di cadute accidentali: spessore, dimensioni e peso contenuti rendono lo ZOPO un dispositivo dall'ingombro minimo e facilmente trasportabile, con lo schermo da 4 pollici di diagonale che offre un discreto compromesso tra funzionalità (anche per la visione di contenuti più lunghi, come film e serie TV) e portabilità. 


La stabilità operativa del telefono fa in modo che sia possibile passare velocemente da un'applicazione all'altra senza rallentamenti e la sensazione è quella che il cellulare sia sempre pronto a ricevere i comandi, muovendosi tra le schermate senza esitazioni: l'accesso al Play Store di Google è naturalmente garantito (così come quello all'App Shop di Amazon) e risulta molto semplice installare le applicazioni desiderate direttamente da PC, una volta che si è proceduto con la registrazione del proprio terminale. Nessun problema inoltre per quanto riguarda la comprensibilità dell'audio nel corso delle telefonate, i tempi di agganciamento al satellite per le app georeferenziate che ne prevedono l'utilizzo, la buona qualità delle fotografie scattate o la connettività al computer: il cavetto mini-USB fornito in dotazione serve sia a ricaricare il telefono (dalla presa elettrica oppure dalla presa USB del computer) sia a connetterlo al PC per il trasferimento di file, che avviene tramite semplice drag and drop. In caso di problemi con i driver (sempre disponibili per ogni evenienza a questo indirizzo), è possibile trasferire i file anche attraverso la rete Wi-Fi, senza quindi adoperare cavetti, installando un'applicazione a pagamento chiamata WiFi Transfer Pro. 


La riproduzione di file multimediali avviene con buona fluidità, salvo che non si diano in pasto al volenteroso ZOPO filmati ad alta risoluzione, comunque non necessari su uno schermo dalla risoluzione di 960x540 (AnTuTu Benchmark riporta un valore di 854x480 con una densità di 240dpi, mentre un telefono di fascia alta come l'iPhone5 arriva a 1136x640 con 326dpi): la compatibilità con diversi formati è garantita dalla possibilità di utilizzare non solo il player integrato ma anche diversi software gratuiti e per certi versi più evoluti, come l'ottimo MX Player. Menzione a parte merita la riproduzione dei file audio, che intervenendo con cura sull'equalizzatore a cinque bande ed abbinando al telefono un buon paio di cuffie può raggiungere dei livelli qualitativi davvero sorprendenti: le mie Superlux HD668B hanno una sensibilità di 98db ed un'impedenza di 56Ohm e posso garantire che riescono a riprodurre i file MP3 di migliore qualità (codificati a 320 kbit/s) alloggiati nella SD Card da 16GB (opzionale) con dettaglio, dinamica e potenza notevoli. Per un utilizzo meno audiofilo, il telefono viene venduto con un paio di auricolari di discreta qualità, dotati anche di un microfono/telecomando col quale è possibile accettare e chiudere le telefonate qualora non si voglia ricorrere ad un dispositivo senza fili Bluetooth. 


La connettività wireless, quando utilizzata, non ha mai dato problemi: il telefono si è infatti sempre collegato correttamente a reti wi-fi, sistema vivavoce dell'auto, tastiere portatili (Dell XTBT01) e joypad Bluetooth come l'iPega. E' forse nell'utilizzo ludico che questo Libero ha evidenziato i limiti maggiori: lo ZOPO si comporta infatti egregiamente con il 3D adattativo delle applicazioni più recenti (Temple Run 2 e Blood & Glory girano che è una favola, destando qualche stupore in chi è cresciuto a pane e Commodore64 e mai si sarebbe sognato una grafica tridimensionale simile sullo schermo di un telefono!) mentre il processore grafico PowerVR SGX 531 - le cui funzionalità sono descritte con dovizia di particolari in questo interessante articolo di HWUpgradedimostra qualche limite col lavoro "sporco" imposto, ad esempio, dagli emulatori. Ho acquistato il joypad iPega per utilizzare il telefono come una sorta di console portatile per vecchi videogiochi, ma sia i titoli per Nintendo 8-bit (hardware del 1983) che quelli per Super Nintendo (uscito in Giappone nel 1990) hanno manifestato piccole scattosità e ritardi in grado da minarne la giocabilità nei passaggi più impegnativi. Dal punto di vista dei controlli di gioco, devo inoltre aggiungere che i pulsanti a schermo hanno sempre risposto velocemente ai comandi, mentre ho trovato meno precisa - forse a causa di una mancata calibrazione da parte mia - la risposta dell'accelerometro. 


Volendo infine paragonare le prestazioni di questo cellulare low-cost a quelle di prodotti di marca, ho sottoposto lo ZOPO ZP500 al famoso test Quadrant Standard Edition, i cui risultati potete vedere nelle schermate pubblicate più in basso: salta subito all'occhio come la performance generale rilevata sia in tutto e per tutto paragonabile a quella di telefoni di costo maggiore, dal Motorola Atrix (€239,00 circa) al Samsung Galaxy Nexus (€308,00 circa), dall'LG Optimus 2X (€165,00 circa) ad un tablet come il Samsung Galaxy Tab 10.1 (€235,00). L'economico ZOPO si è inoltre tolto la soddisfazione di distaccare nel test sia l'HTC Desire HD (€179,00) che il Samsung Nexus S (€250,00 circa). 


Come gran parte dei dispositivi non di marca, anche lo ZP500 ha qualche difettuccio veniale (mancanza di LED di stato che segnalino la ricezione di una telefonata o di un messaggio a display spento, illuminazione non ben definita dei tre pulsanti a sfioramento alla base dello schermo) ed un tallone d'Achille col quale bisogna imparare a convivere, rappresentato dalla scarsa durata della batteria: se infatti un utilizzo moderato assicura un'autonomia sufficiente (telefono finito di caricare alle 11:38 del mattino ed ancora funzionante alle 00:13 della notte, non male dopo circa un anno di uso continuativo della stessa batteria), l'utilizzo intensivo (telefonate frequenti, navigazione su Internet e contemporanea riproduzione di musica, GPS e Wi-Fi sempre attivati) garantisce sul mio dispositivo un funzionamento per circa 4/5 ore, dopo le quali sarà necessario procurarsi una presa di corrente, una presa accendisigari, un computer con attacco USB o una batteria portatile come la Varta V-Man Power Pack per provvedere alla ricarica. Va comunque aggiunto che è possibile sostituire la batteria in dotazione da 1300MAH con una opzionale da 2000MAH, ad un costo di poco superiore ai $10: io stesso non ho però proceduto all'acquisto perchè ho sempre ritenuto gestibile, con qualche accorgimento, l'autonomia limitata del telefono.


Alla luce di quanto riportato dopo così tanti mesi di utilizzo del telefono, e non preso dall'entusiasmo che a volta informa la recensione di un nuovo acquisto, mi sento di consigliare la valutazione di un prodotto simile a chiunque ricerchi quelle prestazioni good enough in grado di rispondere alle esigenze di un utente medio di smartphone. Con lo ZOPO ZP500 è infatti possibile svolgere una miriade di attività (organizzazione di calendario e contatti di lavoro, ascolto di musica, visione di film e TV online, scatto di foto e riprese video, fotoritocco, comandi vocali, navigazione GPS con indicazioni a voce in italiano e vista 3D, videoconferenze e naturalmente... telefonate, con la comodità di due SIM contemporaneamente operative), potendo contare su estetica gradevole ed ingombro contenuto, una buona robustezza generale, una qualità costruttiva che non presenta imperfezioni evidenti ed uno schermo sufficientemente definito e dai colori brillanti (nonostante la visibilità sotto la luce diretta del sole si faccia problematica). Gli unici aspetti negativi - ma gestibili - sono quelli relativi alla durata della batteria (che richiede qualche accorgimento preventivo nel caso ci si ritrovi per lunghi periodi senza poter disporre di una presa di corrente) e la necessità di comunicare in un inglese corretto qualora si abbia bisogno di una qualche assistenza post-vendita. Tenendo conto di tutti questi fattori, ritengo che l'acquisto di un cellulare come questo possa rivelarsi un affare davvero conveniente (oggi si trovano anche telefoni con caratteristiche simili/migliori a prezzi ancora più bassi) e far riflettere, osservando le prestazioni dei concorrenti rilevate dal test di Quadrant Standard Edition, sulla reale qualità di quanto viene venduto nei negozi a prezzi doppi o addirittura tripli.

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martedì 20 agosto 2013

Il suono del Nintendo Entertainment System: appunti tecnici



Generalmente, i giochi arcade pubblicati alla fine degli anni settanta presentavano solo delle brevi musichette durante i titoli iniziali e la schermata di Game Over. Oppure la musica veniva suonata solamente quando la partita non era ancora cominciata, riprodotta con semplici campionamenti DAC, come nel caso di Circus e Rip Cord




La musica all’interno della sessione di gioco fu introdotta nel 1978, con le colonne sonore di Space Invaders e Asteroids. Entrambi i titoli rappresentano i primi esempi di musica dinamica non-diegetica (i cambiamenti avvengono in base a quanto avviene sullo schermo ma non sono strettamente connessi all'attività del giocatore) all’interno di un videogioco: la musica di Asteroids si limitava ad una melodia di due note che accelerava mano a mano che l’azione si faceva più frenetica, così come le quattro note di accompagnamento sonoro alla discesa degli alieni di Space Invaders cresceva di intensità tanto più questi si avvicinavano alla nostra astronave. Il chip sonoro del Nintendo Entertainment System (NES), creato da compositore Yukio Kaneoka e tecnologicamente più avanzato di quello montato dall’Atari 5200, utilizzava un Generatore di Suoni Programmabile (PSG) a cinque canali in grado di fornire 
  • due sintetizzatori ad onda non sinusoidale (simili ad un’onda quadra ma senza la tipica forma simmetrica)
  • un’onda triangolare
  • un canale rumore
  • un canale dedicato ai campionamenti
I sintetizzatori permettevano un controllo di frequenza ad 11-bit, capace di circa otto ottave, e quattro opzioni per i cicli di lavoro (che modificano le armoniche per creare un suono che potesse essere morbido ma anche, con gli opportuni aggiustamenti, corposo, oppure sottile o graffiante). I canali vantavano inoltre una funzione di controllo d’ampiezza a 4-bit (i controlli cosiddetti envelope sono utilizzati per modificare il modo in cui un suono cambia nel tempo. Uno degli envelope più comuni è proprio quello d’ampiezza, che determina il volume del suono nel tempo. Gli envelope possono tornare utili anche per modificare altri parametri del suono come l’altezza e l'applicazione di filtri) ed uno dei sintetizzatori aveva una funzione che permetteva un aumento progressivo della frequenza grazie al quale era possibile creare effetti simili al portamento. 

Il canale caratterizzato dall’onda triangolare lavorava ad un’ottava più bassa rispetto ai due sintetizzatori, aveva un controllo di frequenza a 4-bit e nessun controllo sul volume nè possibilità di envelope

Il quinto canale era dedicato ai campionamenti e conosciuto anche come DMC (Delta Modulation Channel). C’erano due possibilità per utilizzare questo canale: il PCM (Modulazione Codificata di Impulsi), utilizzato per il parlato, come in Mike Tyson’s Punchout; ed il DMA (Direct Memory Access), un sistema ad un solo bit usato più frequentemente per le percussioni e gli effetti sonori. 

Rispetto agli altri sistemi per videogiochi il Nintendo Entertainment System aveva una gamma di toni più ampia, sebbene l’utilizzo dei canali rifletta le limitazioni dell’hardware: generalmente ai due sintetizzatori venivano assegnati gli accordi o un assolo, mentre il canale riservato all’onda trinagolare era utilizzato per l’accompagnamento di basso. La spiegazione più logica per l’utilizzo del triangolo come partitura di basso è da individuare nelle limitazioni stesse del canale: l’altezza più bassa, le frequenze ridotte e la mancanza del controllo sul volume. Queste limitazioni tecniche determinarono che molti degli effetti che potevano essere simulati sui sintetizzatori non sarebbero stati disponibili sul canale triangolo, come il vibrato (modulazione del pitch), il tremolo (modulazione del volume), slide, portamento e così via. Inoltre, agendo sul volume e modificando il timing tra due sintetizzatori era possibile simulare l’effetto eco, com’è possibile ascoltare in Metroid, gioco di fantascienza e pietra miliare del genere con una colonna sonora particolarmente inquietante. 




I loop utilizzati sul NES potevano avere una lunghezza variabile, a seconda del genere di gioco: i giochi di ruolo e quelli di piattaforme avevano i loop più lunghi; i giochi di combattimento e quelli da sala giochi avevano invece i loop più corti; a metà strada si ponevano i puzzle-game. I giochi di corsa incorporavano poca musica di tipo non-diegetico (alcuni si limitavano a riprodurre il rumore del motore durante la partita) mentre i simulatori di volo tendevano ad essere più silenziosi. I loop potevano variare da molto corti (5-10 secondi), medi (10-30 secondi) e molto lunghi (fino ad un minuto e mezzo). La maggior parte di essi si attestava comunque sui trenta secondi e consisteva di quattro o cinque sezioni diverse. I loop più lunghi erano riservati ai giochi di avventura probabilmente perchè i giocatori dedicavano più tempo a questo genere di titoli, che erano progettati per durare molte ore prima di essere completati: un loop breve sarebbe presto venuto a noia al giocatore. Altri giochi si limitavano a ripetere solamente l’ultima sezione di una canzone, piuttosto che il brano nella sua interezza, come nel caso della musica dei titoli di Metroid e Lagrange Point. In questi casi si parla di mesoloop (loop formato da un numero contenuto di microloop) ma non di macroloop (ripetizione di un intero brano o comunque di una parte più lunga di un semplice fraseggio). La spiegazione più ovvia per questo tipo di scelta risiede nel fatto che la schermata dei titoli non era fatta per essere contemplata a lungo: una volta che l’introduzione ed i crediti sarebbero stati visualizzati, il giocatore sarebbe passato al gioco vero e proprio senza aspettare la fine della musica, un chiaro esempio di funzione sulla forma. Alcune canzoni avevano anche brevi introduzioni che non erano ricomprese nei successivi loop. E’ il caso, ad esempio, del secondo livello di Castlevania (Konami, 1987), all’inizio del quale viene riprodotta una breve introduzione alla quale segue un loop che non riproduce più il segmento iniziale. 




I normali livelli di gioco (che rappresentavano le sezioni più lunghe da attraversare) presentavano generalmente i loop più lunghi (dai trenta ai novanta secondi) e la maggiore varietà. La musica che sottolineava lo scontro con i boss di fine livello aveva invece loop più corti, con uno o due mesoloop, probabilmente a causa del fatto che una successione così veloce alimentava la tensione e prevedeva una durata spesso limitata a pochi secondi. Il punto in cui il loop si ripeteva poteva variare da caso a caso; di solito, o il loop era progettato in modo che la sua ultima sezione si raccordasse perfettamente con il ritorno alla parte iniziale del segmento, oppure veniva previsto un breve bridge di transizione per favorire il raccordo. Queste transizioni consistevano generalmente in un glissando oppure in una scala crescente che durava una o due battute. I loop erano costruiti in sezioni che si estendevano da una a otto battute. Queste potevano ripetersi, ma era più comune che si ritrovassero una sola volta all’interno del macroloop, una dopo l’altra, prima che si avanzasse ad una nuova sezione, di solito senza tornare all’originale di partenza a meno che l’intero loop non venisse fatto ricominciare da capo. 

Per un maggiore dettaglio, possiamo scomporre ogni sezione per esaminare la gestione dei loop in diverse canzoni. Per esempio, le sedici battute del primo livello di Castlevania prevedono una battuta di intro che si ripete una volta prima di muovere alla sezione successiva, che comprende un mesoloop di due battute; anche questo segmento viene riprodotto per due volte. Anche le sezioni successive hanno mesoloop di due battute riprodotti due volte prima dell’elemento successivo, una battuta che si ripete. Questo intero elemento si ripete a sua volta in un macroloop. Diversamente, la musica del livello Ambrosia di Ultima 3 ha un mesoloop di otto battute che si ripete, seguito da un mesoloop di quattro battute, che si ripete, ed una sezione di quattro battute riprodotta una sola volta prima che l’intera canzone si ripeta. Per questo motivo, il segmento di macroloop, per un totale di sedici battute, suona un po’ meno ripetitivo di altri loop più rigidi e dalla struttura facilmente riconoscibile. Il livello Brinstar di Metroid ha invece adottato un approccio completamente diverso, con la maggior parte delle sezioni costituite da un mesoloop di due battute che si ripete in un numero dispari di segmenti. Alternando la lunghezza dei mesoloop ed alternando i mesoloop stessi, la ripetizione diventa meno ovvia e monotona. 




Ci sono anche giochi che utilizzano una tecnica meno convenzionale, come Super Mario Bros (Nintendo, 1985), che presenta sezioni di quattro battute composte generalmente da mesoloop di due battute che si ripetono con piccole variazioni. Questo è uno dei pochi giochi che ripetono sezioni alternate prima che l’intera canzone vada in loop al livello superiore. 




Volendo fare un confronto tra console e computer dell’epoca, si può notare che i loop sul Commodore 64 erano generalmente più lunghi di quelli sul NES, questo potrebbe essere una conseguenza del fatto che i giochi prevedano un numero inferiore di brani, mentre sulla macchina Nintendo era più facile udire una musica di sottofondo interattiva. Potrebbe trattarsi anche di una questione di differenze estetiche e culturali. Nei giochi che presentano loop di durata paragonabile, si avverte comunque una differenza tra i due sistemi, con il C64 che adottava più raramente le sezioni di raccordo tra loop a favore di una ripetizione delle sezioni più meccanica. In alcuni casi, come in Forbidden Forest, la ripetizione era piuttosto brusca e poteva avvenire a metà del segmento a seconda dell’interazione del giocatore con il gameplay. Nonostante questo, sempre più giochi adottavano stili di gioco, musiche e grafica che potevano essere ricondotti alla scuola Nintendo, che quindi cominciava a costituire un imprescindibile punto di riferimento al di là delle limitazioni tecnologiche imposte ai programmatori dagli hardware sui quali sceglievano di lavorare.

Riferimenti bibliografici: