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domenica 22 settembre 2013

Recensione POISONBLACK - LYIJY


Orfani dei Sentenced, annichiliti dal commiato in note di End Of The Road (The Funeral Album, 2005) e dilaniati nell'apprendere della morte del loro chitarrista Miika Tenkula (2009), in tanti abbiamo sperato che i superstiti membri della band potessero, con i loro progetti musicali, rinverdirne i fasti. Purtroppo sia The Man Eating Tree che Poisonblack hanno visto rispettivamente il batterista Vesa Ranta ed il cantante Ville Laihiala riproporre spezzoni di esperienza, e solamente briciole di quella malinconia potente, di quella efficacia compositiva, di quella capacità di raccontare immagini tragiche con quel misto di disillusione e cinismo, intriso di nebbie e rigidità finniche che ha affascinato molti di noi. Nei Poisonblack avevo riposto qualche speranza, un po’ perchè pensavo che il fatto di condividere la voce dei Sentenced regalasse loro una sorta di vantaggio competitivo nell’operazione rievocazione/nostalgia, un po’ perchè l’immagine della band, come il black ed il poison offerti nel nome, sembravano promettere una continuità timida con una carriera convincente durata sedici anni. In realtà le aspettative sono state sempre tradite, complice un approccio più disimpegnato, che alcuni definirebbero love metal, che ha sempre inteso ribadire una differenza di toni e smorzare gli entusiasmi di chi sperava di poter tornare indietro negli anni, felicemente intrappolato tra gli zero e gli uno incisi sulla superficie del CD. Formati in Finlandia nel 2000 da Ville Laihiala e sotto contratto con l’onnipotente Century Media, i Poisonblack hanno esordito con Escapexstacy nel Febbraio 2003 (ventunesimo posto nelle classifiche finlandesi), ripresentandosi nel 2006 con Lust Stained Despair (promosso con un tour europeo in compagnia dei Lacuna Coil), nel 2008 con A Dead Heavy Day (sesto posto nella classifica degli album finlandesi), nel 2010 con Of Rust And Bones e nel 2011 con Drive. Se considerato in senso assoluto, il cammino compiuto fino ad ora dalla band finlandese non si può considerare avaro di soddisfazioni: eppure la dichiarazione di Laihiala con la quale la band si presenta sulla pagina ufficiale Facebook, This is not a project band! I have my heart and soul in Poisonblack!, sembra voler allontanare i sospetti di una dedizione solo parziale, di un cammino di mestiere e di portafoglio, di un progetto confezionato più per piacere - e vendere - alla generazione dei formati compressi che non per emozionare con racconti forti e quadri decadenti come i Sentenced - che ebbi il piacere di vedere di supporto ai Lacuna Coil (14 Settembre 2002 al Vidia di Cesena, che delusione quando i miei amici ed io scoprimmo che non si sarebbe trattato del contrario!) e dei quali custodisco l’intera produzione discografica in una sontuosa confezione in edizione limitata a forma di bara - sapevano fare. Lyijy (piombo, in finlandese) si apre con il singolo Home Is Where The Sty Is, canzone che sembra voler riproporre i fasti dei Sentenced in chiave modern-alternative-rock. Rispetto a quel suicide metal che non si può non prendere come riferimento, lo stile dei Poisonblack è brillante, uptempo, seppur meno ammiccante e divertente di quel rock scandinavo alla - per dire - The69Eyes. Lyijy è ritmicamente vivace ma stilisticamente monocorde, con la sola voce di Ville a salvarlo da una pur dignitosissima mediocrità, che tanto è inutile girarci attorno. Compiaciuto del proprio stile moderno, il disco rifugge ogni profondità introspettiva, preferendo arrangiamenti luminosi, più orientati alla fugace permanenza in classifica che a lasciare una traccia nell’animo dell’ascoltatore. 


A scanso di equivoci, la valutazione dell’album trascende un confronto con i Sentenced (per quanto la speranza di un revival, almeno parziale, non sia ancora del tutto sopita nei cuori di tanti), nel rispetto di una band che vuole evidentemente fare altro: melodie sufficienti, produzione sufficiente, assoli sufficienti... difficile trovare un motivo per cui desiderare di tornare a casa per ascoltare il sesto parto dei Poisonblack. Nonostante una produzione rugosa e grezza che lo rende prevedibile ma non artificioso, autore di una falso di classe come la favola della provenienza casereccia di un tortellino Rana, Lyijy presenta ben pochi motivi di interesse, sprecando titoli interessanti (Flavor Of The Month) con la proposta di un rock obliquo e grungy come quello che i D-A-D suonavano nel 1995. E che, voglio infierire, suonava già superato allora. Maggiore credibilità riscuotono i brani che vedono la band alle prese con un metal più autenticamente finlandese, semplice e compatto, alla moda nel suo rifuggere la moda: in questi casi semplicità significa focus, concentrazione, impatto, e basta una ritmica rocciosa ed una melodia spenta al punto giusto per fare di The Absentee qualcosa di romanticamente sommesso ed allo stesso tempo interessante. Non sempre la semplicità paga, però: Maybe Life Is Not For Everyone è una semi-ballad confusa che pare improvvisata, impreziosita - si fa per dire - da un insignificante assolo che sa tanto di Metallica, ma senza il contorno del black album. Tra spunti che sembrano promettere (Blackholehead, Pull The Trigger), ed un secondo dopo deludono (Elaman Kevat), Lyijy arranca alla ricerca di una sufficienza che a mio parere non merita, indipendentemente dal pedigree che vogliamo riconoscerli. Il disco non fa che confermare come il solo Ville non basti a ridare respiro ad un passato carico di emozione, contenuto, arte e trasporto: ai Poisonblack difettano la chimica, il sacrificio della coesistenza ed il caos delle idee per evolversi in qualcosa di vivo, pur nella celebrazione della morte come accadeva ai Sentenced. Forse al gruppo di Ville noi fan di vecchia data non perdoniamo la nuova esuberanza, la ricerca della ribalta, la contaminazione necessaria, portati come siamo a scorgere il vero nel triste, la ricchezza nella sottrazione più dolorosa ed autarchica, l’armonia nell’accostamento gentile e scostante di poche note. Lyijy è invece un’operazione streamlined nella quale si avverte chiara l’assenza del contrasto, del confronto, di quel movimento di forze e gusti musicali che rendono davvero grande una band, e la sua arte superiore alla somma dei contributi dei singoli. Al pari di un bambino viziato, questo è un disco al quale tutto è invece permesso, un viaggio privo di imprevisti che cade vittima del suo comfort e del suo comodo anonimato, della mancanza di sfida, di scelta e di collocazione.

[4]

Modern Rock, 2013

Warner Music Finland

Tracklist:
  1. Home Is Where The Sty Is
  2. Down The Ashes Rain
  3. The Flavor Of The Month
  4. The Absentee
  5. Maybe Life Is Not For Everyone
  6. Death By The Blues
  7. The Halfway Bar
  8. Them Walls
  9. Blackholehead
  10. Pull The Trigger
  11. Elaman Kevat
Line-up:

Ville Laihiala (Voce, Chitarra)
Antti Leiviska (Chitarra)
Marco Sneck (Tastiere)
Antti Remes (Basso)
Tarmo Kanerva (Batteria)

giovedì 8 agosto 2013

Recensione CRY OF PAIN - GRIM MEMORIES & BAD FLASHBACKS



Dio ci conservi la Finlandia, perché come lo fanno loro questo riffatissimo hard’n’heavy, solido, tagliente e malinconico, non lo fa nessuno. Ma andiamo con ordine. Siamo nel 2000 e Niko Ville e Tatu, tre ragazzini finlandesi di soli dieci anni, decidono di formare una band. Il repertorio è composto inizialmente da cover degli HIM e le prove si fanno a scuola, fino a quando non si presenta l’opportunità di allestire qualcosa di simile ad una sala prove all’interno di un capannone poco riscaldato, che li costringerà a provare con guanti e giacconi durante i rigidi mesi invernali. Il primo demo, Evil Inside, è datato 2004 e vede il debutto al microfono del quarto componente della band, l’amico Riku Lipponen. Passa il tempo e si evolvono le capacità, insieme a nuovi gusti musicali che portano la band di Hamina, paesino nel sud della Finlandia da poco più di ventimila abitanti, ad introdurre elementi di Children Of Bodom ed In Flames nei successivi quattro demo che seguiranno nel 2005, 2006, 2008 e 2011. Arriviamo così al 2012, anno della maturata consapevolezza e del sospirato debutto sulla lunga distanza, con un Grim Memories & Bad Flashbacks che corona degnamente una bella storia di amicizia, tenacia e crescita. Motor Romance, prima traccia dell’album, racconta di una band amante di riff di chitarra immediati e potenti, poco propensa ai fronzoli, ispirata dalle sonorità – se non propriamente dal mood – dei conterranei ed indimenticati Sentenced.




Ad una canzone come (Don’t) Save Our Souls manca certamente la capacità di evocare immagini gelide e potenti, di portarti “la Finlandia dentro” come facevano il compianto Miika Tenkula e compagni, ma il tiro – seppure in una declinazione più luminosa, commerciale e rockeggiante alla The69Eyes – pare pervenire in tutta la sua algida interezza. Quello cantato dai Cry Of Pain è uno struggimento grigio e serioso, partecipato e logorante, mai scanzonato nonostante una biografia di lettura gradevole alla quale non fanno certo difetto, in puro stile nordico, umorismo e voglia di non prendersi troppo sul serio. Tempi medio-veloci assicurano un assalto maschio ed incalzante, diretto al punto (a possibile eccezione dell'indecifrabile SAW, che sembra un po’ perdersi per la strada), convincente nel modo in cui grezza potenza, agilità ritmica e cori si combinano in un insieme in molti casi di apprezzabile spessore. La voce di Riku è perfetta per il genere, potente e pulita quando serve cantabilità al ritornello, più sporca nel corso di strofe che invece non rappresentano il pezzo forte della band. E’ infatti evidente la consapevolezza da parte dei Cry Of Pain di disporre di una manciata di chorus interessanti, che spesso riprendono il riffing proposto all’inizio della canzone, ed alle strofe, per la verità poco ispirate in quanto ad arrangiamento ed interpretazione, è consegnato solo il compito di fare da collante con le parti alle quali sono state dedicate le attenzioni migliori. Le linee vocali in questi frangenti non sembrano sempre azzeccate, Riku pare a volte abbandonato a se stesso nonostante riesca sempre, come un frontman navigato, a traghettare un’apparenta insicurezza in ritornelli meglio strutturati, di una melodia parsimoniosa che non sconfina mai nella soluzione facile e sdolcinata. Grim Memories & Bad Flashbacks dà la sensazione di essere un disco in continuo movimento, a tratti tormentato ed insicuro (la ballad Made To Last non è memorabile, nonostante il violino che la addolcisce ed il coro che ne rafforza la cantilena), eppure portatore di un’energia ragionata e quadrata,  adulta e verace, sufficiente a far perdonare i piccoli peccati di gioventù che ancora non lo rendono un acquisto essenziale. All'album non manca una componente più oscura: Chamber Of Lust è un passaggio greve e compresso, Never Live To Regret è un lungo episodio doom, ed entrambi sono offerte fuori posto in scaletta ma che servono a farci intuire l’ampiezza dello spettro e la profondità buia delle acque nelle quali questa band saprà muoversi. Nonostante il ricorso ad una retorica che avvicina alcuni passaggi più cadenzati, soffusi e malinconici (Love Is For Fools) al fascino maturo degli inglesi Anathema, sono soprattutto impeto, genuinità e voglia di fare a sprizzare da queste dieci tracce, comunicati da una sezione ritmica non stellare ma solida, dal lavoro senza tregua delle chitarre e da cori cattivi e ben dosati. Siamo di fronte ad un debutto di grande sostanza, dalle idee chiare, concentrato sugli elementi di forza e coraggioso ai limiti dell'incoscienza nello spingersi un passo oltre, rifinito ma solo dove strettamente necessario (con timidissime tastiere, qualche effetto ambientale) e registrato da un produttore che ha evidentemente stabilito un buon feeling con i musicisti ed il loro progetto. Il disco non rappresenta quindi solo un sogno realizzato dopo tante fatiche ma anche un prodotto solido, sporco quanto basta per renderlo credibile ed in grado di mostrare una maturità artistica superiore a quella prettamente anagrafica dei quattro amici. Il voto assegnato può quindi essere inteso (anche) come una valutazione “di prospettiva”, perché ascoltando Grim Memories si ha l’impressione che i Cry Of Pain possiedano già oggi la capacità di scavare ulteriormente in se stessi, per proporre una musica che sappia crescere in complessità, ricercatezza dei testi, arrangiamenti e cura generale: questo album non rappresenta certo un debutto perfetto, la qualità dei brani è altalenante e gli ultimi minuti appaiono molto meno ispirati rispetto al bellicoso incipit… tuttavia l’ascolto delle dieci parti che lo compongono ha il pregio di intrigare ed alimentare una curiosità, tessendo nell'ascoltatore una tela di collegamenti e nostalgici rimandi che lascia solo immaginare come continuerà la storia dei ragazzini di Hamina, che a dieci anni suonavano gli HIM tra le colorate mura della loro scuola elementare.

[7]

Hard’n’Heavy, 2013

Kotkan Kanki Records

Tracklist:
  1. Motor Romance
  2. Kill For Fame
  3. Love Is For Fools
  4. SAW
  5. Getaway Runner
  6. Made To Last
  7. (Don’t) Save Our Souls
  8. Chamber Of Lust
  9. Dead Rockstar
  10. Never Live To Regret
Line-up:

Riku Lipponen (Voce, Chitarra)
Ville Nummi (Chitarra)
Niko Suortti (Basso)
Tatu Mellin (Batteria)