giovedì 21 aprile 2011

Recensione | GOTTHARD - BEST OF BALLADS PART II (2010)



Originariamente pubblicato su Metallized.it

Il 5 ottobre 2010, Steve Lee, cantante, leader e fondatore del gruppo è deceduto a causa di un incidente motociclistico negli Stati Uniti. Un mezzo pesante lo ha trascinato sulla strada dopo che il gruppo con cui circolava si era fermato a bordo corsia. Steve era intento ad indossare il giubbotto impermeabile (da Wikipedia).

Steve era intento ad indossare il giubbotto impermeabile. Cazzo, la vita. Passino l'incidente motociclistico e gli sport estremi, passino le malattie, passino i disastri naturali. Ma se pur chiamandoti Steve Lee ed avendo venduto più di due milioni di dischi in tutto il mondo, muori travolto da un camion mentre ti metti l'impermeabile -non riesco a pensare ad una circostanza più dannatamente banale- allora tu che rimani devi davvero fare un respiro profondo, inventarti ogni giorno un modo nuovo per dare valore alla vita e renderti conto di quanto sei infinitamente piccolo.

Posticipato per problemi relativi alla produzione della versione digipack, questo Heaven - Best Of Ballads - Part 2 vuole rappresentare, nelle lodevoli intenzioni di Nuclear Blast, un modo per "aiutare i fan a convivere con il vuoto" lasciato dal sopracitato frontman svizzero. La compilation contiene 17 tracce, solo una delle quali inedita (What I Am, omonima dello splendido brano diEdie Brickell, ricordate?) e due riproposte in versione acustica originale (Have A Little Faith eFalling). L'ascolto, diciamolo subito, è emotivamente impegnativo, soprattutto per i fan della band, dato il tenore "ballad" delle canzoni ed i ricordi che un cantato caldo ed appassionato sono in grado di evocare, con disarmante facilità, in più di un passaggio. La struttura ricorrente dei brani, che spesso si aprono scommettendo sulla sola, splendida, voce accompagnata da una chitarra acustica, fanno riflettere su quanto fosse proprio il cantato di Steve a "fare i Gotthard", e non ci si può non interrogare su quale sarà il cammino che i musicisti superstiti vorranno intraprendere. La scelta di realizzare una compilation di ballad contempla il rischio di proporre una (lunga) serie di brani che finiscono per assomigliarsi per atmosfere, strutture e scelta dei suoni, per cui il senso di appagamento dato dal possesso del cd sfiora, per convergenze parallele, quello di una certa ripetitività di fondo: i brani scelti, inoltre, si riferiscono -tranne rare eccezioni- ad un arco temporale piuttosto circoscritto (dal 2005 di Lipservice al 2009 di Need To Believe, periodo di maggior successo internazionale della band), per cui sarebbero avventate ed inopportune considerazioni critiche su evoluzione del songwriting o delle scelte stilistiche adottate. Caratteristiche comuni ad ogni traccia, bisogna sottolinearlo, sono comunque il gusto e la misura europea, l'esperto soppesare gli elementi, la capacità di creare un'atmosfera che, per quanto circolarmente simile a se stessa, si avverte come tangibile e densa. Steve è sempre sugli scudi (con la possibile eccezione di Nothing Left At All, svogliata e prevedibile) e l'impressione generale è quella di una squadra ben affiatata di musicisti al suo servizio, pronti a valorizzarne il talento con garbati tocchi di classe.

La title-track Heaven ci consegna sin dalle prime battute una tonalità avvolgente, dolce e crepuscolare, e sembra quasi di cogliere i profumi della brezza marina, mentre ci si immerge nell'ascolto: "from the ashes to the sky" è un passaggio che arriva dritto dritto al cuore e, anche senza voler indugiare sulle vicende della band, fa pensare alla caducità delle cose umane, ai cambiamenti ai quali dobbiamo adattarci, alle rinunce alle quali siamo costretti ed al pensiero di Qualcosa di più grande, che affascina e spaventa al tempo stesso. What I Am, unico vero inedito, è un brano carico di espressività e di colori, che confonde l'intero progetto Gotthard con la voce di Steve: professionale e quadrata, a scapito di una minore capacità di coinvolgere, è una canzone-spot dalle tinte forse troppo accese, come certi quadri per turisti in vendita a Trinità dei Monti. Where Is Love When It's Gone, che può permettersi il lusso di osare un suono di fisarmonica senza risultare pacchiana, è una Have You Ever Seen The Rain al maschile, più soffusa ed umbratile, con un testo sul concetto di mancanza (di una voce, di un amico, di un pensiero) capace di commuovere senza artificio. Need To Believe è il tipo di ballad che gli svizzeri sanno fare meglio: tensione palpabile e corale potenza sostengono una canzone dinamica sempre capace di rinnovarsi, con un equilibrio alchemico tra strofe arpeggiate ed un ritornello che vorresti non finisse mai. One Life One Soul risale invece al 1996, ma viene qui proposta in chiave acustica: parentesi romantica e delicata, forse addirittura incolore per i meno sensibili, ma ugualmente gradevole nella sua forma asciutta e composta. The Call, al pari diNeed To Believe, conferma la volontà discografica di riservare alla parte centrale del dischetto i momenti più trascinanti. Corale ed orchestrata, in una parola completa, la canzone sposa con maestria arpeggi, riff di chitarra e sottofondi di tastiera, realizzando quel generale senso di elvetico equilibrio così difficile da agguantare prima, e mantenere poi. Don't Let Me Down si apre con un'intro riservata come sempre alla voce, capace di creare davanti ai tuoi occhi un'immagine invernale di paesaggi grigi, superfici vetrate lambite dalla pioggia, e camini accesi. E poi arriva la scossa alla Aerosmith, con la band che esce prepotentemente allo scoperto con tempismo perfetto, riuscendo a cogliere e valorizzare ogni elemento del brano. Unconditional Faith è ammiccante ed intrigante, atmosferica al pari di Dead Or Alive di Bon Jovi, con una linea di basso che prende all'amo l'ascoltatore e non lo molla: luminosa e rassicurante come un abbraccio, onesta come il miglior amico, anelata come il ritorno a casa, questo episodio tratto daNeed To Believe è la sferzata emotiva necessaria per proseguire l'ascolto con spirito scosso, ma rinfrancato nella voglia di guardare avanti. Have A Little Faith, anch'essa rielaborata in chiave acustica, è straordinariamente fisica e dettagliata: solo voce e piano sulla scena, a fondersi in un'interpretazione sofferta e partecipe, che costituisce il ricordo più schietto di chi non c'è più. La successiva Tears To Cry è forse l'ultimo vero ruggito, con onde di archi struggenti addomesticati da una ritmica tirata ed inarrestabile, elegantemente bass-driven, con continui rimandi tra cori che mantengono alta l'attenzione, senza stancare. Everything I Want e I've Seen An Angel inaugurano la parabola emotiva discendente che ci porterà ai titoli di coda: voce e chitarra sono come sempre esenti da critiche, ma le canzoni di per sè assumono una levità allaDef Leppard poco congeniale non solo alla band, ma anche al senso di questa raccolta. Frettolosi nel servire il chorus, meno ispirati e trascinati svogliatamente fino alla fine, entrambi gli episodi costituiscono un artificioso allungamento del quale si poteva fare a meno. Con Tomorrow's Just Begun torna di nuovo a sorgere il sole, con una progressione voce/chitarra/basso/batteria/tastiere che suona convincente, per quanto dal sapore neomelodico italiano in qualche sfilacciamento di troppo: "just remember you can find me here" fa venire la pelle d'oca, ed umetta pure l'occhio. Falling sfiora le stesse corde, infierisce quasi: acustica, corale, intima... ma anche blanda e ripetitiva come la successiva Another Goodbye, che trova nella brevità e nella semplicità il suo tratto più spontaneo. Menzione particolare, infine, per la bellissima Merry X-Mas, forse una delle canzoni "di Natale" meno "di Natale" (leggi: banalotte) che mi sia capitato di ascoltare: guardata inizialmente con diffidenza, si rivela invece uno splendido episodio capace di tratteggiare in crescendo un Natale universale, fuori dal tempo e straordinariamente vero, con un retrogusto delicatamente amarognolo da ballata folk irlandese.

Recensire un qualsiasi prodotto che rechi il logo Gotthard è un privilegio, per la possibilità di esprimere una valutazione su una delle band che hanno rivitalizzato, con classe, la scena hard-rock contemporanea. L'atteggiamento deve essere prudente ed attento, ma anche schietto per il rispetto che si deve tanto al fan quanto al comune lettore. Personalmente, considero un album molto di più che la somma delle canzoni che lo compongono, proprio perchè è l'impressione finale generale, a qualche minuto dall'ennesimo ascolto, ad affascinarmi, e della quale amo scrivere. Trattandosi di una compilation, per di più "postuma", è evidente che a queste valutazioni si deve concedere un peso relativo, attenuato, perchè da questo punto di vistaHeaven non si pone come percorso ragionato, ma come cruda operazione che dobbiamo avere il coraggio di definire commerciale (prezzo medio superiore alle 40.000 lire, che rende meglio l'idea) e realizzata sull'onda emotiva che si è scatenata da quel maledetto 5 Ottobre. Il mio consiglio è dunque quello di procedere ad un ascolto casuale delle varie tracce, in modo da ricercare -saltando da un brano all'altro- la combinazione perfetta tra ritmo ed introspezione che in sede di mastering non è stata a mio parere meditata. Ancora meglio, ed in virtù della qualità soltanto media dell'inedito qui proposto, procuratevi Domino Effect e Need To Believe, ad un prezzo complessivo che con ogni probabilità sarà equivalente a quello di questa raccolta. Avrete una visione più organica e varia di quanto maestoso è stato il contributo artistico di questi musicisti, provenienti dalla piccola Svizzera Italiana.

Il 5 ottobre 2010, Steve Lee, cantante, leader e fondatore del gruppo è deceduto a causa di un incidente motociclistico negli Stati Uniti. Un mezzo pesante lo ha trascinato sulla strada dopo che il gruppo con cui circolava si era fermato a bordo corsia. Steve era intento ad indossare il giubbotto impermeabile. 


Voto: 78/100

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