martedì 19 aprile 2011

Recensione | VOODOO CIRCLE - BROKEN HEART SYNDROME (2011)



Originariamente pubblicato su Metallized.it

Secondo album della band capitanata dal talentuoso chitarrista tedesco Alexander Beyrodt(Pink Cream 69Silent ForceSinnerPrimal Fear): dopo l'onomimo debut del 2008, Broken Heart Syndrome ricerca un compromesso tra suoni classici e stili moderni, in un'ideale tensione tra Rainbow, Whitesnake e Deep Purple da un lato, ed un hard-rock/AOR di stampo più fresco ed europeo dall'altro. Il gruppo annovera una line-up di tutto rispetto, composta da David Readman (Pink Cream 69) alla voce, Jimmy Kresic alle tastiere, Mat Sinner (SinnerPrimal Fear) al basso e Markus Kullmann (Dezperadoz) alla batteria. 


Voodoo Circle scaldano i nostri timpani con un gustoso antipasto hard-rock: No Solution Blues, emulsionata da chitarre grasse ed intelligentemente tese a sostenerne gli slanci, trascina con una voce calda e competente, viene dritta al punto e, senza indugiare in orpelli inutili, regala un primo momento di facile ascolto che ben predispone. La successiva King Of Your Dreamssembra invece voler spezzare il ritmo, con un incedere gravoso ed un assolo di classe che ne sottolinea il carattere buio ed introspettivo: tappeti di tastiere e chorus anni ottanta caratterizzano una canzone basata sulle pause e sugli stacchi, ben congegnata, ma che avrebbe più facilmente trovato i suoi perché in una posizione più avanzata all'interno della tracklist. Stessa perplessità si affaccia sulla scelta di proporre come terzo brano l'infinita Devil's Daughter: fumosa, sincopata, notturna e claustrofobica, la canzone è un lento che cerca di ospitare, nel corso dei suoi quasi sette minuti, una serie di spunti diversi. Il basso di Mat Sinner suggerisce e tratteggia, le tastiere del funambolico Kresic resistono a fatica a sirene progressive, il ritornello non agguanta quella coralità necessaria a consegnarlo a futura memoria, e tra forzati allungamenti da jam session e parti liricheggianti alla Della Brown dei Queensryche, il risultato ricorda quei dolcetti americani coloratissimi e zuccherosi, ma fondamentalmente insapori. Si torna su binari tradizionali con l'hard-rock di This Could Be Paradise, viva nel suo drumming squillante, dinamico e piacevolmente arioso: ogni elemento svolge il suo compitino senza sbavature e tutto suona ortodosso appropriato e corretto, anche se un po' anonimo. Chorus anni ottanta e Stratocaster rinforzate agguantano una dignitosa sufficienza, e restituiscono la speranza di sentire i Voodoo Circle cimentarsi con altro buon rock all'interno di questo album. Volontà confermata dal riff killer di Broken Heart Syndrome: un incipit così promettente ed il fatto che parliamo della title-track, alimentano però aspettative esagerate. L'attitudine c'è, ma ancora una volta nel momento più importante la canzone sembra perdere i propri pezzi per strada, e sgonfiarsi d'improvviso come un palloncino nelle mani di un bimbo grasso ed allibito. Il ritornello è monocorde e finisce per affidarsi a degli irritanti "uo-oh" per tappare le falle, l'assolo suona artificioso e di lunghezza superiore al necessario, ed il tutto finisce per apparire ancora una volta slegato, sfuocato ed ibrido oltre ogni pretesa di contaminazione. Crisi di identità? 

Dopo occasioni mancate, lunghezze eccessive ed aspettative tradite (e bimbi grassocci col palloncino in mano), si finisce col chiedersi come suonino veramente i Voodoo Circle, quali siano le intenzioni e su cosa vogliano essere giudicati dal recensore di turno. Le incombenti nuvole, per fortuna, cominciano a diradarsi a partire da When Destiny Calls, che rappresenta un ideale spartiacque dal sapore biblico all'interno di Broken Heart Syndrome, nel quale i pezzi del puzzle cominciano a trovare i giusti incastri. Riff potente e gutturale, aperture di suoni e di accordi, interessanti spunti in controtempo ed ecco finalmente realizzarsi quell'uniformità, quella comunanza di intenti che libera energia pulita, che coinvolge l'ascoltatore e che lo spinge a partecipare all'esecuzione, a condividere il momento ed al voler ascoltare, sì, ancora una volta. Troviamo finalmente lo spunto felice, la giusta carica, la melodia offerta con semplicità e priva di virtuosismi inutili: la canzone ricorda i nostrani Dark Horizon del fortunato Angel Secret Masquerade per la capacità di trovare un giusto equilibrio tra musicalità e voglia di dimostrare. Felici per una prova convincente, ci buttiamo all'ascolto della successiva Blind Man: colpevole di spezzare ritmo ed entusiasmi, la canzone si presenta come un ideale punto d'incontro tra Hey Joe di Jimi Hendrix e Mama Said dei Metallica, una southern ballad in salsa AOR dai suoni vintage ottimamente prodotti. Buon esercizio per la band –ma la canzone latita-, che spiana la strada per il successivo swing di Heal My Pain: pomposo e trionfante, questo rock da Pretty Woman non propone una melodia memorabile, ma tastiere imprendibili ed una bella varietà ritmica che la rendono un ascolto tutto sommato piacevole. Ulteriore sorpresa la riservano The Heavens Are Burning e Wings Of Fury, due momenti di veloce heavy-metal con i quali i nostri sembrano volersi confrontare per vedere, come dire, l'effetto che fa. In entrambi i casi, diciamolo subito, si avverte un senso di forzatura: ci sono un buon controllo, un promettente crescendo ed assoli di chitarre e tastiere che svolgono egregiamente il proprio lavoro, ma è nel momento del chorus che entrambi i tentativi mancano clamorosamente il bersaglio. Il gruppo arriva spompato e privo di idee al momento cruciale, che viene risolto con un minimo sindacale di melodia e pure con un pizzico di imbarazzo. Occasioni sprecate, quindi, o forse la prova provata che non è questo il terreno dal quale la band riuscirà a far germogliare il lato migliore. Per fortuna che la luce torna con Don't Take My Heart, non a caso simile nella struttura e nelle atmosfere e nella formula alla cugina When Destiny Calls: siamo di nuovo in territorio hard-rock pastoso, grintoso e diretto, in una parola onesto. La canzone è compatta, con piccoli spunti di classe ma senza strafare, senza cali evidenti: scontata quanto si vuole ma nel complesso gradevole. Un bell'assolo nel quale chitarre e tastiere lunari si rincorrono e si combinano alla perfezione: questa è la strada da percorrere; da evitare invece, qualora ci fosse bisogno di conferme, episodi come la successiva I'm In Heaven, anonima nel ritornello e barocca nei coretti, che sembra rifugiarsi nelle spire dell'assolo perché incapace di dire altro.

Broken Heart Syndrome è un album interessante, più per il proseguo della band che per l'appagamento dell'ascoltatore: nonostante in ogni momento traspaiano grande professionalità, cura per il dettaglio e padronanza tecnica, la qualità dei brani è altalenante, per una sorta di indecisione compiaciuta sulla strada da intraprendere. Giusto dare spazio alle influenze ("boundless music possibilities", come recita la cartella stampa), accogliere, trasformare e plasmare, ma ciò che conta è riuscire a restituire ai posteri un prodotto originale e dotato di personalità. Nessun dubbio sul fatto che ponendosi con trasparenza, più coerenti nelle scelte stilistiche e senza voler necessariamente tenere i piedi in più staffe, i Voodoo Circle abbiano tutte le potenzialità per fare bene. Il fatto che un terzo della canzoni proposte in questo album sia di ottimo livello (dalla opener No Solution Blues al tiro di When Destiny Calls) costituisce una valida premessa ed una promessa da mantenere.


Voto: 71

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